Gli obiettivi del millennio ostaggio del protezionismo

Dieci anni fa le nazioni del mondo promisero di adoperarsi per ridurre sostanzialmente, entro il 2015, i problemi che toccavano i poveri del mondo attraverso l’implementazione di un molto articolato programma delle Nazioni Unite che ha assunto a suo tempo il nome di Millennium Development Goals. Gran parte degli obiettivi fissati nel programma, allo stato delle cose, ben difficilmente saranno realizzati e ci sembra di avere gia’ informato i lettori sulla situazione complessivamente non molto brillante di avanzamento del programma sui vari fronti in un articolo apparso qualche mese. Il raggiungimento di gran parte degli obiettivi previsti dal programma sembrava certamente molto problematico.

Dal 20 al 22 settembre si e’ tenuto a New York un summita’ presso la sede delle stesse Nazioni Unite per fare ufficialmente il punto della situazione. Al vertice hanno comunque partecipato circa 130 capi di stato e di governo, insieme a diverse decine di organizzazioni non governative. La prima constatazione e’ stata che i paesi sviluppati erano stati larghi nelle loro promesse di aiuto, ma poi la gran parte di essi non hanno mantenuto fede ai loro impegni solenni. Cosi per il solo 2010, il deficita’ di risorse rispetto a quelle promesse viaggia intorno ai 20 miliardi di dollari. Quasi ovviamente di gran lunga l’ultimo della classe, rispetto agli impegni sottoscritti a Gleneagles nel 2005, e’ stato il governo italiano, additato ormai da molte organizzazioni umanitarie come la vergogna del mondo.

Per quanto riguarda piu’ in generale i paesi europei, per la verita’ anche la Germania non si e’ comportata molto bene, mentre, a parte le nazioni del Nord Europa tradizionalmente generose e ligia agli impegni su questo fronte, va ricordato il serio impegno di Francia e Gran Bretagna, ribadito ora con forza, per quest’ultimo paese, anche dal nuovo governo conservatore, nonostante le rilevanti difficolta’ di quell’economia. E il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, non ha mancato di sottolineare, in un discorso tenuto qualche giorno prima del vertice, lo sforzo di quest’ultimo paese additato come esempio. Comunque ha molto contribuito al ritardo nel raggiungimento di molti degli obiettivi fissati la crisi economica degli ultimi anni ed anche l’aumento dei prezzi di molti prodotti agricoli, che sono cresciuti in media nell’ultimo anno del 17%, almeno secondo un calcolo dell’Economist. La crisi ha tra l’altro, oltre all’effetto diretto di ridurre il flusso degli aiuti da parte dei paesi ricchi, avuto come conseguenza anche un calo sensibile nelle rimesse da parte dei cittadini degli stessi paesi poveri emigrati in quelli occidentali, nonche’ il ritorno in patria di molti dei lavoratori gia’ inseriti nell’economia dei paesi ricchi. Cosi, in un documento del Fondo Monetario Internazionale preparato per il vertice, si calcola che 71 milioni di persone in piu’ sarebbero negli ultimi anni sfuggite alla fame se la crisi non ci fosse stata.

Ma a parte la questione degli aiuti, la cui reale utilita’ ai fini dello sviluppo dei paesi poveri, almeno per una parte consistente dei programmi, e’ contestata almeno da una parte degli operatori e degli analisti, c’e’ la questione delle barriere commerciali. Sia gli Stati Uniti che l’Europa continuano a danneggiare i paesi economicamente meno favoriti attraverso l’imposizione di quote all’importazione dei prodotti agricoli e invece con il mantenimento di elevati sussidi alla loro agricoltura. E il summita’ di New York non sembra aver portato ad alcuna novita’ sul tema, se non una dichiarazione di buona volonta’ da parte di qualcuno.
Come e’ forse noto, il caso di scuola piu’ clamoroso in proposito e’ rappresentato dal fatto che per sostenere appena poche decine di migliaia di agricoltori statunitensi operanti nel settore della produzione di cotone, si danneggiano invece milioni di agricoltori africani, dal Mali, al Burkina Fasu, al Ciad. Secondo uno studio specifico della Oxfam inglese, eliminando i sussidi statunitensi alle produzioni di cotone nazionali si migliorerebbe in misura rilevante il reddito di almeno 10 milioni di africani.

Sempre per quanto riguarda gli Stati Uniti, si puo’ ancora ricordare come i consumatori di quel paese paghino lo zucchero ad un prezzo sostanzialmente doppio rispetto a quello del mercato internazionale, e questo per proteggere appena 9.000 produttori nazionali. La liberalizzazione delle importazioni dei prodotti agricoli verso i paesi ricchi a partire da quelli poveri farebbe molto di piu’ per lo sviluppo di tali paesi che non il mantenimento degli impegni nel campo degli aiuti.

Tornando agli stessi aiuti, il noto economista Jeffrey Sachs, esperto della questione, ha sottolineato tra l’altro, in un intervento in generale apprezzato al summit, come sarebbe ora di smetterla con gli aiuti bilaterali, da stato a stato, di rado molto efficaci, a favore invece dell’approccio multilaterale attraverso le organizzazioni internazionali. Per altro verso, bisogna ricordare a questo proposito come, ad esempio, i programmi di sostegno allo sviluppo delle piccole e medie imprese dei paesi poveri restino in genere molto frammentati, con molti progetti condotti dai diversi paesi e dalle diverse organizzazioni internazionali senza alcun coordinamento tra di loro. A parte l’intervento di J. Sachs, da ricordare allo stesso summita’ quello magniloquente di Barack Obama, che secondo molti opinionisti non cambiera’ nulla all’attuale stato delle cose. Lo sforzo finanziario Usa e’ subordinato tradizionalmente e soprattutto agli obiettivi di politica estera del governo e cosi esso e’ diretto verso gli alleati politici e non verso i paesi che potrebbero utilizzarlo nel modo migliore. In effetti, il budget dell’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale di quel paese e’ strettamente sotto il controllo del Dipartimento di Stato. Va a questo proposito inoltre ricordato come i due paesi che ricevono il piu’ alto ammontare al mondo di aiuti da parte dei paesi occidentali siano oggi significativamente l’Iraq e l’Afganistan e come quindi sotto la tematica degli aiuti si nasconda, almeno in parte, ben altro. Obama dovrebbe inoltre pensare di smettere di usare il capitolo degli stanziamenti per lo sviluppo come un mezzo per fare del dumping nei paesi poveri con i surplus agricoli statunitensi; lo stesso Obama diversi anni fa, quando era senatore, come ci ricorda un editoriale del Financial Times del 25 settembre 2010, si oppose, insieme alla gran parte dei parlamentari del partito democratico, alla riforma della legge sugli aiuti allo sviluppo, che avrebbe cambiato in meglio lo stato delle cose. Egli potrebbe ancora far cessare gli scandalosi sussidi al settore del cotone, sopra ricordati, e che persino la World Trade Organisation ha dichiarato illegali, o smettere di legare gli aiuti ai vari paesi alle esportazioni americane o all’utilizzo di imprese americane nello sviluppo dei vari progetti.

Al vertice c’e’ stato poi l’annuncio di un apparentemente grandioso piano di 40 miliardi di dollari per il settore della sanita’. Ancora lo stesso editoriale del Financial Times ci ricorda peraltro come tale annuncio appaia in generale senza senso, come esso sia in realta’ un capolavoro di vaghezza e di messa in lista di vecchi piani e di vecchie promesse; cosi, ad esempio, gli stessi aiuti vengono nei programmi messi a punto contati spesso due e anche tre volte.
Comunque il summita’ si e’ chiuso con delle forti dichiarazioni di buona volonta’ da parte di tutti e un verboso documento finale. Qualche impegno e’ anche peraltro apparso abbastanza sincero. Staremo a vedere.

(Tratto da: http://www.finansol.it)

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