Negri. Noi e gli altri. E il ruolo dell’informazione.

Immaginiamo una barca con centotrenta italiani, o inglesi, o francesi, o statunitensi, tedeschi, o polacchi. Immaginiamo che questa barca affondi nel mediterraneo. Immaginiamo le pagine dei giornali, che ci raccontano la tragedia, che sondano tutte le possibili ipotesi del disastro. Interviste con esperti, chiacchierate con capitani di lungo corso che raccontano in ogni particolare le acque di quel mare e i loro pericoli [Lettera ai giornalisti di Maso Notarianni -Peacereporter.net-].


Immaginiamo le pagine di giornali e i servizi televisivi, piene di immagini della tragedia. Piene delle foto ricordo dei naufraghi, delle loro fototessere. E le interviste ai familiari, strazianti, agli amici carichi di nostalgia e disperazione. E i brani delle loro ultime conversazioni. Qualcuno di loro magari aveva scritto una lettera prima di imbarcarsi, e di quello scritto leggiamo i brani sulle colonne dei maggiori quotidiani. Ci vengono recitati da un famoso attore nello speciale che in prima serata si occupa della strage. Qualcuno di loro, ci dicono, non sarebbe dovuto partire, aveva preso quella nave all'ultimo momento, come ripiego. Qualcuno d'altro, invece, salvato dalla fortuna, aveva cambiato programma proprio il giorno prima della partenza, e adesso è vivo.

Ogni mese, ogni settimana, forse ogni giorno nel Mediterraneo affondano imbarcazioni. Gommoni, carrette, a volte navi vere e proprie. Sempre cariche di persone. Ma di loro non sappiamo nulla. Nulla delle loro vite, nulla delle loro storie. Non ce ne fanno vedere le facce o le pose in momenti felici. Non ci fanno vedere le istantanee della disperazione che la loro morte ha lasciato. Nessun familiare, nessun amico viene intervistato. Non incuriosiscono. Non interessano. Perché sono altro da noi. Che poi è un modo elegante di dire, indipendentemente dal colore della pelle, che sono negri.

Immaginiamo che ogni giorno, due aerei carichi di bambini e ragazzini che vanno in viaggio premio, in gita scolastica, vadano a picchiare contro una montagna avvolta da nuvole senza lasciare un solo superstite. Probabilmente qualcosa si farebbe per evitare che ogni giorno 450 bambini morissero. Si arriverebbe a impedir loro di volare, o si spianerebbero le montagne. Succede ogni giorno, non lo dicono i pacifisti assoluti, i pacifondai, i comunisti mangiabambini. Lo dice l'Unicef, che ogni giorno muoiono, per la guerra, 450 bambini. Non è il fato che li mette su un aereo. Né il destino che fa inceppare comandi e abbattersi sulle montagne.

Li uccidiamo noi.

Sono una parte, una piccola parte, di quello che ogni giorno l'umanità è costretta a sacrificare al nostro modo di vivere. Quel modo di vivere che ogni giorno i grandi capi delle grandi potenze proclamano di voler difendere a ogni costo. “Non ci faranno cambiare modo di vivere”, dicono Bush, Blair, Berlusconi, Putin e gli altri. Anche a costo di compiere, in onore di chissà quale dio, sacrifici umani.
 
O forse no, non sono sacrifici umani. Perché i sacrificati, per quello che i grandi mezzi di informazione ci fanno sapere e per come lo fanno, sono altro da noi. Non li raccontiamo, gli altri morti. Non li facciamo conoscere al pubblico. Non ne mostriamo i volti, non ne sveliamo le storie. Se lo facessimo, se raccontassimo le vite e le morti di qualcuno di quei quattrocentocinquanta bambini o di qualcuno di quelle migliaia di migranti che hanno per tomba il mediterraneo, i potenti della terra, difensori del nostro stile di vita sarebbero costretti dall'opinione pubblica a trovare una soluzione. Forse ad abolire la guerra.

E allora, cosa aspettiamo, noi giornalisti, a pretendere che i nostri giornali e le nostre televisioni ci diano lo spazio per farlo? Mentre ci pensiamo non facciamo passare troppo tempo. Ogni giorno costa la vita a quattrocentocinquanta bambini. Negri, ma pur sempre bambini.

Be the first to comment on "Negri. Noi e gli altri. E il ruolo dell’informazione."

Leave a comment