Gli insoddisfatti della globalizzazione


Una delle parole più di moda emerse nei media in anni recenti è ‘globalizzazione.’ Oramai, tutti probabilmente sappiamo cosa significhi. Ed è un peccato — perché a questo punto il termine è talmente ambiguo da non significare in realtà un gran che. I media hanno pubblicato che trattati internazionale chiave come il NAFTA e il WTO si sarebbero guadagnati l’approvazione degli USA durante gli anni ’90 perché la maggior parte dei politici in Washington è a favore della
‘globalizzazione.’

Nei media è opinione comune che quei globalizzatori vogliano promuovere libera comunicazione e iniziative congiunte fra nazioni.

Beh, non proprio. Di questi tempi, alla Casa Bianca e sul Campidoglio, gli stessi propagandisti della ‘globalizzazione’ sono disturbati da certi tipi di azione globale — come le attuali mobilitazioni popolari contro una guerra in Iraq.

Per la maggior parte, gli stessi funzionari eletti ed i giornalisti che hanno applaudito una globalizzazione spinta dal denaro sono ora spaventati dalla vista della globalizzazione contro la guerra. Il recente spettacolo di milioni di persone che dimostravano contro la guerra nello stesso giorno in
tutto il mondo è stato sufficiente per causare un infarto alla Casa Bianca.

Ciò è coerente con un tema ricorrente: le forze ‘pro-globalizzazione’ non sono felici di vedere la globalizzazione della solidarietà per i diritti dei lavoratori, per una economia giusta, per l’ambiente, e per alternative alla
guerra.

Una contraddizione analoga risiede nell’immagine proposta dai media degli attivisti ‘anti-globalizzazione’ come nemici dell’internazionalismo che vogliono irrigidire i confini nazionali, rinforzare l’isolamento e prevenire
le interazioni a livello mondiale. Al contrario, i difensori dei diritti umani, i sostenitori della protezione ambientale e della pace — sebbene in gran parte contrari a sovrastrutture globali come il NAFTA od la WTO — hanno lavorato alacremente per trovare il modo di collaborare con le persone
sparse per il pianeta che condividono le stesse idee.

La forma di ‘globalizzazione’ che i media considerano degna del suo nome è la globalizzazione dell’impresa privata, che da al grande capitale un impulso ancora maggiore nell’indebolire i confini e fare scempio delle leggi nazionali. Sommergere ogni nazione con Nikes, Burger Kings e Bancomat è
presumibilmente un indice di progresso, non importa quanto cattive siano le condizioni lavorative, quanto dannosi i prodotti o quanto ingiuste le conseguenze economiche. Nel frattempo, i tifosi della ‘globalizzazione’
affermano senza sosta che la protezione dei diritti dei lavoratori o dell’ambiente equivarrebbe ad una restrizione sleale del commercio, ad un protezionismo retrogrado e ad antiquate resistenze alle ‘riforme.’

Di per se, ‘globalizzazione’ è un termine decisamente troppo semplicistico perché ci dica qualcosa. E’ così nebuloso che potrebbe essere necessario abbandonarlo, o almeno sviluppare qualche nuova espressione per rimettere a
fuoco la realtà .

Oggi, l’amministrazione Bush, fissata con la guerra, e la maggioranza bipartisan dei delegati al Congresso sono ferventi sostenitori di quello che potrebbe essere definito ‘intervento isolazionista.’ Certo, i leader
americani di oggi proclamano la loro visione globale e dichiarano di voler collaborare con il resto del mondo, ma alle loro condizioni — con il governo USA che si riserva il diritto di determinare le sue politiche in
isolamento da qualunque nazione che non riesca ad offrire un sostegno servile. Con il pesante appoggio della grande impresa, essi insistono nel dire che gli Stati Uniti hanno il diritto di intervenire militarmente all’estero. Perché? Perché lo dicono loro.

L’essenza di questo approccio alla ‘globalizzazione’ è stato ben espresso dal loquace esperto Thomas Friedman, il cui libro del 1999 ‘Le Radici del Futuro’ lodava i ruoli complementari del militarismo americano e del
capitalismo delle grandi imprese. ‘La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile,’ scriveva. ‘McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas, progettista dell’F-15 utilizzato
dall’aviazione americana. Ed il pugno invisibile che mantiene il mondo sicuro affinché le tecnologie di Silicon Valley possano prosperare si chiama Esercito, Aviazione, Marina, e Corpo dei Marines degli Stati Uniti.’

Questa politica dissimulata della mano e del pugno viene attivamente rifiutata da milioni di persone che marciano per le città in molte parti del mondo. E i leader di numerosi paesi danno voce a questo rifiuto. Parlando al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 18 Febbraio, il primo ministro della Malaisia, Mahathir Mohamed — il futuro presidente del Movimento dei Paesi Non-Allineati — ha combinato realismo con idealismo. ‘Non abbiamo forza
militare o finanziaria,’ ha detto, ‘ma possiamo unirci al movimento mondiale per opporci alla guerra per ragioni morali.’

La globalizzazione di quel movimento è qualcosa da tenere d’occhio. E da coltivare.

[Documento originale: ‘Target Iraq: What the News Media Didn’t Tell You,’ di Norman Solomon e Reese Erlich, è stato appena pubblicato come tascabile dalla Context Books. Per la prefazione ed altre informazioni, visitate la
pagina: http://www.contextbooks.com/newF.html]

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