Cacao amaro


In Costa d’Avorio i contadini di cacao bruciano per disperazione e protesta i raccolti; nel frattempo l’Unione europea approva la risoluzione per abbassare del 5% il burro di cacao presente nel cioccolato. E le ultinazionali che producono cioccolato gongolano.

Di Diego Marani

Il prezzo del cacao sulle borse internazionali è stato il più basso da 7 anni e mezzo: a
metà novembre a Londra hanno toccato quota 528 sterline per tonnellata. Il maggior
produttore mondiale di cacao, destinato in massima parte all’esportazione, è la Costa
d’Avorio [ogni anno oltre un milione di tonnellate, e per la prossima annata è
prevista -come spesso capita – una sovrapproduzione] che da sola soddisfa il 43% della
domanda mondiale. Secondo alcune stime circa il 40% del Pil della Costa d’Avorio deriva
dall’esportazione di cacao [idem per il Ghana, secondo esportatore mondiale]. In Africa
nel ’97 si stimavano 1,2 milioni di coltivatori di cacao e 11 milioni di occupati in
attività connesse.

Il governo pochi mesi fa aveva abbandonato ogni controllo sul mercato interno:
liberalizzazione assoluta, dunque, da allievo modello di Fondo monetario internazionale e
Banca mondiale quale l’ex ‘miracolo economico’ africano ha sempre cercato di essere. La
Lettre du Continent l’11 novembre annunciava la nascita della prima camera di commercio
privata per la vendita del cacao, grazie a un investimento di 1 miliardo di franchi Cfa [3
miliardi di lire] per commercializzare il prodotto di 3 gruppi di produttori.

Il 14 novembre una missione di Fmi e Bm è arrivata ad Abidjan per discutere un
finanziamento dell’ordine di 500 miliardi di franchi Cfa, che sembra siano destinati anche
a investimenti nel settore della sanità e della scuola. Ma sicuramente il problema cacao
non è rimasto fuori.

Nel frattempo le proteste popolari contro le misure del governo aumentano, fino a
rasentare in alcuni casi la rivolta. I contadini baulé vendono il loro cacao a 210 franchi
Cfa il chilo, contro i 575 di qualche mese fa [non che per il cotone, coltivato
soprattutto nel nord dai diula, vada molto meglio: i prezzi di vendita sono scesi del
40%]. Dei 40 grandi raccoglitori di cacao previsti per la prossima campagna, solamente 20
sembrano avere i finanziamenti necessari per comprare i semi da distribuire ai contadini.
E nel frattempo gli agricoltori, per protesta contro i prezzi troppo bassi, hanno bloccato
l’attività dei porti, impedendo l’esportazione anche di 10mila tonnellate di cacao al
giorno. Minacciano di bruciare il raccolto e di distruggere le sementi.

Alcune cause della crisi: speculazioni nelle borse internazionali, offerta elevata e
consumi limitati. Su quest’ultimo punto l’Ue sembra aver contribuito ad aggravare la
situazione dei contadini della Costa d’Avorio [ma anche di Ghana, Camerun e Nigeria].

Opzione zero

In ottobre il consiglio e la commissione hanno trovato un accordo sulla nuova normativa,
che regola una direttiva che risale al 1973: in tutti i paesi Ue [e non solo in Regno
Unito, Danimarca, Svezia, Finlandia, Austria, Portogallo] potranno chiamarsi ‘cioccolato’
prodotti che contengono al massimo il 5% [in peso] di grassi vegetali diversi dal burro di
cacao. Grazie soprattutto alle insistenze della Francia, i sostituti ammessi sono burro di
illipe, olio di palma, burro di karité, burro di cocun, nocciolo di mango, anche grasso di
stearina: un piccolo tentativo di addolcire questa amara risoluzione, visto che i prodotti
sostitutivi provengono da paesi del sud del mondo, in particolare Mali e Burkina Faso.
Questa clausola dovrebbe durare per cinque anni e mezzo; dopo rimane il dubbio che questo
5% possa essere sostituito anche da derivati di alimenti geneticamente modificati. La
normativa inoltre prevede che i prodotti in questione debbano mostrare nell’etichettatura
la dicitura «contiene altri grassi vegetali oltre al burro di cacao».
Il movimento del commercio equo e solidale negli scorsi anni aveva lanciato in tutta
Europa una campagna per la cosiddetta opzione zero: il burro di cacao è insostituibile.
Anche numerosi voci della società civile si erano mosse per evitare questa beffa al
cioccolato. Ma alla fine altri interessi hanno prevalso.

Il burro di cacao rappresenta circa l’8% del costo del cioccolato; serve non per dare
sapore ma la giusta consistenza. L’olio di palma costa 10 volte di meno. Ecco perché
Caobisco, un gruppo di pressione costituito da multinazionali del settore [tra cui
Jacobs-Suchard, Philip Morris, Nestlé, Mars, Ferrero e Cadbury; nel mondo 9 multinazionali
controllano il 70% degli usi industriali del cacao e il 50% della raccolta] in grado di
controllare il 74% della produzione europea di cioccolato, insiste sulla questione.

Secondo Stefano Squarcina, caporedattore del mensile Mani Tese e consigliere politico al
parlamento europeo, non si tratta solo di una sconfitta delle proposte di ong e
associazioni terzomondiste, ma anche di segnali contraddittori da parte della politica
estera dell’Unione. Da un lato si favoriscono le esportazioni dei paesi Acp e si ridiscute
la Convenzione di Lomé, dall’altro si penalizzano invece fortemente quegli stessi stati
che si pretende di aiutare. «Inoltre nessuno nella commissione o nel consiglio vuole
spiegare perché si è deciso di obbligare alcuni paesi ad adattarsi alla situazione di Gran
Bretagna e compagnia, e non viceversa».

Ora la parola tocca all’europarlamento. Secondo alcune stime la nuova normativa
significherebbe una perdita complessiva di almeno 200.000 tonnellate, la maggior parte
delle quali provenienti dalla Costa d’Avorio. La perdita in denaro subita dai produttori
oscillerebbe tra il 12 e il 20%. Per questo Squarcina insiste: «Il parlamento deve essere
costantemente informato dalle ong; prima di attuare la direttiva ci vuole uno studio che
valuti l’impatto sociale ed economico sulle strutture produttive africane, in particolare
su quelle costituite da gruppi di piccoli produttori».

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