I Balcani, come l´Algeria o il Medio Oriente, altro non sono che il nostro specchio. E, così come furono uno straordinario «laboratorio di incubazione» dei nostri conflitti, oggi diventano lo spazio dove sperimentare – in anticipo – il modo di porvi rimedio.
La Jugoslavia è il luogo che meglio e per primo rivela come lo scontro fra globale e locale – se non ammorbidito dalla costruzione di legami sociali difensivi – non si limita a generare spaesamento, ansie e nostalgie di nuovi muri, ma fa di peggio: rifluisce nei fondamenti del sangue e del suolo, divora sé stesso, devasta il ventre profondo della comunità . Ma qui viene la sorpresa. Questo stesso luogo «maledetto» diventa, dopo la guerra, il terreno per ripartire da zero, reinventare la politica, le appartenenze e la coscienza di luogo. Costruire, cioè, strade alternative per «fare società ».
In principio sta la scoperta di Prijedor, nella Bosnia ad amministrazione serba, dove – con piccoli aiuti esterni – si riforma una comunità possibile, la vita ricomincia, gli espulsi rientrano. Prijedor, con i minareti in ricostruzione, «con le case del ritorno, la cooperativa agricola delle vedove, gli internet caffè, i gruppi di educazione psico-sociale e di promozione alle relazioni inter-etniche, il corso di giornalismo, le esperienze di microcredito». Dietro alla rinascita, il lavoro di una delle Agenzie per la democrazia locale, operanti in tutta l´ex Jugoslavia. A quel punto il viaggio freddo del ricercatore cambia registro, diventa un viaggio caldo, partecipato. Si trasforma in ricerca-azione, una cosa che implica condivisione ed empatia con ciò che si studia e si racconta.
Il principio doveva essere un libro in lode del volontariato, di quell´esercito di anonimi che si mettono «in gioco» per mettersi «in mezzo», di coloro che si ostinano ad andare fra etnìe e religioni, nei ghetti e fra i naufraghi dello sviluppo. Di quelli, scrive Bonomi, «considerati sia dagli indifferenti teorici del libero mercato globale, sia dai freddi teorici della sinistra, null´altro che utili idioti funzionali al loro conservatorismo compassionevole o alla loro militante autonomia del politico».
Poi, man mano che il viaggio continua nel Paese profondo, l´Autore sembra realizzare altro. Capisce di trovarsi sul filo sottile che unisce due mondi provocandone il cortocircuito. Da una parte i luoghi svuotati dalla dittatura del consumo e dall´esplosione del globale, dall´altra luoghi devastati dall´implosione del locale, dall´autocombustione delle comunità . Da noi, l´urlo dei no-global a Genova, il terrorismo planetario dell´11 settembre, con i neri angeli sterminatori che si lanciano contro i simboli imperiali del terzo millennio. Da loro, a nemmeno duecento chilometri di distanza, la guerra etnica, un´aggressività che ricalca scenari «tribali», o – come tuona la Del Ponte all´Aja – «medievali».
Ma questi due mondi sono davvero separati, oppure si intersecano? Non è forse vero che la tribalizzazione, l´avvitarsi delle Heimat, la chiusura in localismi rancorosi, alla fin fine fanno il gioco di chi vuole governare i flussi e le reti globali? L´etnocentrismo di Bossi non s嫏 forse alleato al monopolio mediatico di Berlusconi? E allora, perché non dire che proprio il volontario, l´«utile idiota» che ricostruisce in Jugoslavia le comunità maledette, può indicare proprio all´Occidente – alla società dell´individualismo compiuto, della solitudine blindata e del capitalismo personale – la strada per ricostruire dal basso reti solidali?
Oggi, con i suoi videogiochi, la politica scende dall´alto per parlare all´uomo solo. Ma la politica, scrive Cacciari nel suo libro-intervista sull´anno Duemilauno, dev´essere proprio l´opposto: deve dire all´uomo che «non è solo». Ecco allora che il volontario in «territorio comanche» ci dà un segnale preciso: la politica deve ripartire dal basso, dai luoghi, dal territorio. Lavorare sulle relazioni «micro», fare azione di comunità , ricostruire le appartenenze. Non lo chiedono solo i «marginali» o i «no-global». Oggi, lo invoca la base inascoltata della sinistra. Lo domandano persino le nuove élites. Quelle nate, appunto, nel territorio: povere di finanza, dimenticate dalla politica, ma ricchissime di idee, intelligenza e valori.
Si parlerà soprattutto di questo il 20 febbraio alla Triennale di Milano – via Alemagna 16, ore 18 – alla presentazione del libro con Stefano Boeri, Massimo Cacciari, Virgilio Colmegna, Carlo Formenti e Marco Revelli. Se la politica non sarà ripartire dal basso, allora dovremo rassegnarci – scrive Bonomi – a una «nuova, lunga stagione di guerra fredda». Nella quale la «globalizzazione hard» tenterà di imporsi in tutti i modi, anche attraverso la guerra. E dove i territori, talvolta con la complicità dei multinazionali, risponderanno – indebolendosi – con forme sempre più regressive di resistenza.
di PAOLO RUMIZ, Repubblica del 19/02/02
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