Plutocrazia: gli inizi

 (Fonte: znetitaly.altervista.org)

Caroline Astor e il suo palazzo originale in arenaria

di Steve Fraser ”’ 3 aprile 2015

(Quelli che seguono sono estratti, leggermente riadattati, da ‘The Age of Acquiescence: The Life and Death of American Resistance to Organized Wealth and Power[L’eta’ dell’acquiescenza: vita e morte della resistenza statunitense al potere e alla ricchezza organizzati] (Little, Brown and Company)).

Parte 1: La Grande Rivolta

Quella che divenne nota come la Grande Rivolta, il movimento per la giornata lavorativa di otto ore, suscito’ quello che uno storico ha definito ‘uno strano entusiasmo’. Il normale sciopero sindacale e’ un evento finito che vede due parti confrontarsi su temi limitati, anche se a volte irrisolvibili. Lo sciopero di massa del 1886 o, prima di esso, del 1877 ”’ tutti i molti scioperi di massa localizzati scoppiati in cittadine e piccole citta’ industriali dopo la guerra civile e fin nel nuovo secolo ”’ fu a tempo indeterminato e di portata ecumenica.

Cosi, per esempio, a Baltimora, quando i frenatori ferroviari, specializzati e meglio pagati, della Ferrovia di Baltimora e dell’Ohio, scesero per la prima volta in sciopero nel 1877, lo stesso fecero i meno pagati ‘operai degli scatolifici, delle segherie e delle fabbriche di barattoli di quella citta’ [che] abbandonarono i loro luoghi di lavoro e sciamarono nelle strade’. Cio’, a sua volta, ‘stimolo’ gli uomini delle ferrovie a commettere atti piu’ audaci’. Quando il governatore della Virginia Occidentale mando’ la Guardia e Fanteria Leggera di Berkeley ad affrontare gli scioperanti a Martinsburg, a richiesta del vicepresidente della ferrovia, la milizia si ritiro’ e ‘i cittadini, la milizia sbandata e la popolazione rurale della campagna circostante fraternizzarono’ incoraggiando gli scioperanti.

La dinamica centrifuga dello sciopero di massa fu caratteristica di tale straordinario fenomeno. Al terzo giorno, a Martinsburg gli scioperanti erano stati ‘rinforzati durante la notte dovunque dall’affluenza di lavoratori impegnati in altre rivendicazioni, diverse dalla ferrovia’ che, per inciso, resero virtualmente impossibile alle truppe federali, a quel punto sulla scena, reclutare crumiri per far andare i treni.

Arrivati al quarto giorno ‘operai delle industrie meccaniche, artigiani e lavoratori di ogni settore dell’umana industria cominciarono a mostrare sintomi di irrequietezza e di scontento’. Filtrante sempre piu’ in profondita’ nel substrato della vita proletaria, giu’ sotto la classe lavoratrice ‘rispettabile’ dei minatori e degli operai meccanici e dei marinai fluviali, osservatori spaventati riferivano ‘una potente corrente di passione e di odio’ che rastrellava ‘un vasto sciame di fannulloni, vagabondi e barboni maligni’. Cosi andavano le cose.

Citta’ piu’ piccole e paesi come Martinsburg avevano spesso maggiori probabilita’ dei grandi centri urbani di assistere a questo pervadente senso di solidarieta’ sociale. (Quella che oggi potremmo chiamare una folla del 99%). Durante la Grande Rivolta del 1866 la trasmissione sociale dello sciopero di massa prese dapprima le mosse dalle grandi linee principali delle ferrovie bloccate, ma rapidamente afflui nei piccoli paesi e nelle cittadine lungo dozzine di linee secondarie e di fabbriche locali, laboratori e miniere di carbone con squadre di scioperanti che muovevano di accampamento ad accampamento per mobilitare la popolazione.

In queste localita’ prevalevano ancora i rapporti personali. Non era assolutamente scontato che l’antagonismo tra lavoro e capitale fosse destinato a essere la caratteristica del mondo. Avversione al nuovo ordine industriale e un ‘sentimento democratico’ unirono lavoratori, negozianti, avvocati e imprenditori di ogni genere, sconcertati dal comportamento di grandi industriali che abbastanza spesso non vivevano in tali comunita’ e percio’ erano piu’ facilmente considerati degli esseri alieni.

Non era insolito che dirigenti locali, come il sindaco di Cumberland, Maryland, si schierassero dalla parte della massa degli scioperanti. Il direttore federale delle poste di Indianapolis telegrafo’ a Washington: ‘Il nostro sindaco e’ troppo debole e il nostro governatore non fara’ nulla. Si ritiene che simpatizzi con gli scioperanti’. A Fort Wayne, come in molte altre cittadine di simili dimensioni, sulla polizia e sulla milizia semplicemente non si poteva far conto per reprimere gli insorti. In questo mondo, alla proprieta’ industriale non era riconosciuto lo stesso status sacralizzato cui ancora ci si inchinava nel caso delle proprieta’ personali. A volte proprieta’ aziendali erano ridotte in cenere o rese inutilizzabili; altre volte erano sequestrate ma non danneggiate.

Anche metropoli videro propri meno frequenti terremoti sociali. Vi erano piu’ comuni relazioni anonime; il baratro che separava le classi sociali era piu’ vasto e i maggiori imprenditori potevano contare sulle nuove classi dirigenziali e professionali per sostegno e su una dirigenza politica su cui potevano piu’ frequentemente fare affidamento.

Tuttavia la grande citta’ raramente costituiva una zona demilitarizzata. Nel corso dello sciopero di massa del 1877 a Pittsburgh, quando furono uccisi 16 cittadini, la citta’ esplose e ‘l’intera popolazione sembrava essersi unita ai rivoltosi’.

‘Strano a dirsi’, segnalo’ un giornalista, elementi della popolazione che avevano una ‘reputazione di persone rispettabili ”’ commercianti, proprietari, operai meccanici per bene e persone simili ”’ si mescolavano apertamente con la [canaglia turbolenta] e l’incoraggiavano a commettere altri atti di violenza’. Anche qui, come in localita’ minori, arrabbiati come chiaramente erano, gli scioperanti di massa continuavano a fare una distinzione tra la proprieta’ delle ferrovie e la proprieta’ privata dei singoli, che evitavano scrupolosamente di attaccare. Abbastanza spesso l’impeto dello sciopero di massa era sufficiente a ottenere concessioni riguardo a salari, orari o altre condizioni di lavoro, anche se potevano essere provvisorie, non stipulate in contratti e suscettibili di essere violate o ignorate quando la legge e l’ordine erano ripristinati.

‘Otto ore per quello che ci pare’

Operai dei mattonifici e degli scatolifici, commessi dei negozi di abbigliamento e metallurgici, lavoratrici ebree non specializzate dei calzaturifici e telegrafisti specializzati, artigiani tedeschi delle legatorie e facchini boemi analfabeti, tutti si unirono sotto la bandiera dei Cavalieri del Lavoro o in assemblee meno formali, spontanee. Il nome intero dei Cavalieri era in realta’ Nobile e Sacro Ordine dei Cavalieri del Lavoro, un nome peculiare che come tanto del linguaggio elettrizzato del lungo diciannovesimo secolo suona tanto dissonante e bizzarramente esotico all’orecchio moderno. Con un piede nel passato artigianale e l’altro oltre la servitu’ proletaria minacciosamente in attesa nel futuro, i Cavalieri erano la principale espressione organizzativa dello sciopero di massa. Erano in parte sindacato, in parte gilda, in parte protesta politica e in parte un’aspirante economia cooperativa alternativa.

In tutte le occasioni, e specialmente nelle cittadine industriali piu’ piccole, i Cavalieri si affidavano ai legami con la comunita’ piu’ vasta ”’ parentela, vicinato, commercianti locali ”’ non semplicemente alla solidarieta’ di fabbrica. Come il movimento populista, costituivano in pratica un universo sociale alternativo di sale e circoli di lettura, giornali, biblioteche, circoli e cooperative di produzione. Pervasi da un senso dell’eroico e del ‘sacro laico’ i Cavalieri si vedevano come in missione, a fare appello ai vasti ranghi medi delle comunita’ locali per salvare la nazione e preservare l’eredita’ del repubblicanesimo e la dignita’ del lavoro produttivo.

Questo ‘Sacro Ordine’, ambiguo e ambivalente nel suo proposito finale, accolse tuttavia una profonda resistenza all’intero stile di vita rappresentato dal capitalismo industriale pur combattendo per modi di sopravvivenza all’interno di esso. Cosi offriva rimedi ordinari: abolire il lavoro minorile e forzato, stabilire una tassa sul reddito e creare una pubblica proprieta’ dei terreni per insediamenti e non per speculazione, tra le altre cose. Soprattutto, comunque, trasmise un desiderio di un ‘bene comune cooperativo’, alternativo all’incubo hobbesiano che era diventato il Progresso.

Trasgressivo per natura, questo ‘strano entusiasmo’ smonto’ e poi ricompose dozzine di collegamenti piu’ provinciali. Il calore intenso dello sciopero di massa fuse questi frammenti in qualcosa di piu’ coraggioso e generoso. Era tutto non preventivato. Lo sciopero di massa aveva un ritmo suo proprio, sincopato e imprevedibile nel suo diffondersi come un’epidemia dalla fabbrica al mercato alle baraccopoli. Non aveva un comando centrale, diversamente da uno sciopero convenzionale, ma neppure era un qualche caso misterioso di combustione spontanea. Aveva, piuttosto, dozzine di coreografi che dirigevano rivolte locali che cio’ nonostante restavano sufficientemente elastiche da coalizzarsi tra loro, pur rimanendo distinte. Il suo programma si sottraeva a qualsiasi codificazione. In un certo luogo e momento affrontava la liberta’ di espressione, in un altro affrontava le prepotenze croniche dei caposquadra, qui la presenza di crumiri e di teppisti armati, la’ di un taglio ai salari.

Spaziava agevolmente da qualcosa di tanto prosaico come un cambiamento nel ritmo di produzione a qualcosa di tanto portentoso come la nazionalizzazione dell’infrastruttura nazionale dei trasporti e delle comunicazioni, ma al suo centro c’era la rivendicazione della giornata lavorativa di otto ore. Netto  e tuttavia profondo, definiva per quel momento storico sia il minimo irriducibile di una civilta’ giusta e umana, sia cio’ che l’ordine prevalente delle cose non poteva, o non voleva, assicurare. La ‘Canzone della Giornata di Otto Ore’, che divenne l’inno del movimento, catturava quella miscela di quotidianita’ e di trascendenza:

‘Vogliamo goderci il sole,

vogliamo odorare i fiori,

siamo sicuri che Dio lo ha voluto.

 

E intendiamo avere otto ore,

stiamo convocando le nostre forze

da cantieri, fabbriche e stabilimenti.

 

Otto ore per lavorare, otto ore per riposare,

otto ore per quello che ci pare’.

Quando sciopero’ mezzo milione di lavoratori il 1° maggio 1886 ”’ il ‘Primo Maggio’ originale, tuttora festeggiato nella maggior parte del mondo, esclusi gli Stati Uniti dove ebbe origine ”’ gli scioperanti lo chiamarono Giorno dell’Emancipazione. Come suona arcaico! Quella retorica esortativa e’ passata di moda. Il movimento per le otto ore del 1886 e gli scioperi di massa che lo precedettero, lo accompagnarono e lo seguirono furono un movimento per la liberta’ nella terra dei liberi diretto contro ogni forma di schiavitu’, che nessuno riconoscerebbe o cui nessuno darebbe valore oggi.

Parte 2: un villaggio Potemkin dei nuovi ricchi

Un feudalesimo di genere distintamente teatrale fu il rifugio utopistico delle classi elevate. Consisteva principalmente in una ritirata dal coinvolgimento attivo nel tumulto che le circondava. Alcuni plutocrati, come George Pullman o J.P. Morgan, al contrario, furono profondamente coinvolti nel gestire le cose. Morgan opero’ da banchiere centrale non ufficiale della nazione, ma da un punto di vista distintamente feudale, notoriamente dichiarando: ‘Non devo nulla al pubblico’.

Altri capitani d’impresa, come Mark Hanna, un grande elettore del Partito Repubblicano, o August Belmont, che svolgeva un ruolo simile presso i Democratici, divennero crescentemente impegnati negli affari politici. (Hanna osservo’ una volta in tono mordace: ‘Ci sono solo due cose importanti  in politica. La prima sono i soldi e non riesco a ricordare quale sia la seconda’). I due apparati di partito avevano esercitato una certa indipendenza immediatamente dopo la guerra civile, chiedendo tributi alle classi imprenditoriali. Col finire del secolo, tuttavia, furono addomesticati, diventando portatori d’acqua a quelli da cui un tempo l’attingevano. Gli organi legislativi, in quell’eta’, compreso il Senato, altrimenti noto come ‘il Circolo dei Milionari’, si riempirono di tuttofare degli Stati Uniti dell’industria.

Numeri molto piu’ vasti di nuovi ricchi, una classe rentier di locatori e staccatori di cedole, tuttavia, aveva paura fisica di invischiarsi. Si confeziono’, invece, un villaggio Potemkin ermeticamente sigillato in cui far finta di essere aristocratici con tutti i diritti e la deferenza e la legittimita’ che accompagnano quella condizione.

Guardando indietro a un secolo, e piu’, fa tutto quel travestimento ”’ i balli in maschera in cui l’e’lite dell”Albo della Nobilta” [Social Register] (i ‘Patriarchi’ degli anni ’70 del 1800, i ‘400’ degli anni ’90 dello stesso secolo) che sfilavano a mo’ di Enrico VIII e Maria Antonietta, i servi in livrea, i castelli smontati in Francia, Italia o Gran Bretagna e trasportati, pietra su pietra, per essere ricostruiti sulla Quinta Avenue, le false genealogie e i falsi blasoni, le caccie con i levrieri e le partite di polo, l’allevamento di bestiame di nobile pedigree a scopi decorativi, l’accumulo disordinato di gioielleria di famiglia, di Vecchi Maestri e di tappeti orientali, i matrimoni di statunitensi ‘principesse del dollaro’ con la progenie in bolletta della nobilta’ decadente d’Europa, gli esclusivi ‘abbeveratoi’ di Newport e del Bar Harbor, le elementari private e i circoli dei gentiluomini che li separavano dalla plebe, la preoccupazione per la promozione sociale che trasformava poltrone ricercate nel parterre dei teatri d’opera e delle sale da concerto in giostre da torneo mortalmente serie, tutto questo sembra stupido. O, piu’ a proposito, pare un comportamento incongruamente bizzarro nella patria della rivoluzione democratica. E in un certo senso lo e’ stato.

Tuttavia questo spettacolo aveva uno scopo, o scopi molteplici. Innanzitutto era un modo confermato nel tempo di esibire il potere perche’ tutti lo vedessero. Tuttavia c’era piu’ di questo. Esso costituiva l’infrastruttura di una fantasia culturale utopistica di una classe elevatasi cosi grezza e insicura del suo posto e della sua missione nel mondo che aveva necessita’ di tutte queste credenziali in affitto come vernice protettiva. Da camuffamento elaborato, poteva servire a legittimare sia agli occhi di quelli su cui improvvisamente era esercitato, o si cercava di esercitare, un potere enorme, e anche ai propri stessi occhi.

Dopotutto molti di questi potentati borghesi di prima e seconda generazione erano appena emersi dall’oscurita’ sociale e dai piu’ casalinghi propositi economici. La loro grossolanita’ natia era in piena vista, irrisa da molti. Herman Melville osservo’: ‘La classe dei ricchi e’, nel suo complesso, una tale folla di ricchi somari che non essere ricchi porta con se’ una certa distinzione e nobilta”. Mentre la loro prominenza sociale e il loro peso economico aumentavano a ritmo straordinario ”’ e, con essi, le sfide piu’ feroci alla loro improvvisa preminenza ”’ lo stesso accadeva alla loro necessita’ di fabbricare illusioni di stabilita’ e di tradizione, di sentirsi radicati anche nel piu’ sottile dei suoli, di allargare i confini del proprio isolamento sociale.

Caroline Astor, meglio nota come ‘Signora Astor’, la decana di questo mondo il cui nonno acquisito aveva cominciato da macellaio, si diede parecchio da fare per esprimere come tali tensioni potevano essere risolte. La sua vita di famiglia fu descritta in questo modo da un osservatore: ‘La livrea dei loro domestici era una copia precisa di quella familiare al castello di Windsor e la loro biancheria era marcata con emblemi di nobilta’. All’opera indossavano tiare e quando pranzavano i loro piatti erano all’altezza di pretenziosita’ imperiali’.

Ritratti simili furono dipinti di molte delle grandi famiglie dinastiche e dei loro virgulti: i Gould, Harry Payne Whitney, i Vanderbilt e altri erano dipinti in modi che li rendevano candidati altamente improbabili a formare un’aristocrazia socialmente consapevole. La stessa signora Astor fu una volta dipinta come un ‘candeliere ambulante’ per i molti diamanti e le molte perle spillate su ogni spazio vuoto disponibile del suo corpo.

Il suo parente John Jacob Astor IV, un famoso donnaiolo, fu strigliato, insieme con i suoi pari, da un ministro episcopale: ‘Il signor Astor e la sua compagnia di New York e i suoi soci di Newport per anni non hanno prestato la minima attenzione alle leggi della chiesa e dello stato che sono sembrate contrarie ai loro piaceri personali o ai loro diletti sensuali. Ma non si puo’ ignorare Dio per sempre. Il giorno della resa dei conti arriva e arriva non come si vorrebbe’. Alcuni anni dopo Astor affondo’ con il Titanic. Un altro membro della compagnia rifiuto’ un invito del presidente Hayes a fare l’ambasciatore in Inghilterra poiche’ cio’ violava il credo della famiglia: ‘Lavora duro, ma non lavorare mai dopo cena’.

Ward McAllister, il maggiordomo dei ‘400’ dell”Albo della Nobilta”, si cimento’ da un altro punto di vista. ‘Oggi, con il rapido aumento dei ricchi, i milionari sono troppo comuni per ricevere molta deferenza; una fortuna di un milione e’ solo una poverta’ rispettabile’, disse McAllister. ‘Percio’ dobbiamo tracciare confini sociali su altre basi: antichi legami, un’educazione nobile, perfezione in ogni conseguimento richiesto a un gentiluomo, comodita’ eleganti e una reputazione privata immacolata contano piu’ che nuove ricchezze’.

Ma gli ‘antichi legami’ erano tanto nuovi ed effimeri quanto le trattative commerciali del giorno prima e la ‘nobile educazione’ non includeva neppure una completa capacita’ di leggere e di far di conto ma ne includeva in effetti copiose controfigure; i ‘conseguimenti di un gentiluomo’ avrebbero dovuto abbracciare ogni sorta di astuta trattativa sul mercato o altrimenti la raccolta sarebbe stata scarsa. E le maree della volatile economia degli Stati Uniti che per quanto alte fossero state costruite le dune attorno alle ridotte della ‘vecchia ricchezza’, non avrebbero mai potuto resistere alle ondate dei soldi nuovi.

‘Tremenda democrazia’

Era tutto, come ha segnalato uno storico, ‘un corteo e un racconto di fate’, una peculiare arcadia di castelli e servitori, un omaggio al ‘bell’ideale’ da parte di un universo sociale neonato ma ‘liberarsi dall’imbarazzo delle proprie origini mercantili’. Ma questa vita da sogno era male adatta alle arti e mestieri del governare una societa’ che, al meglio, era incline a considerare questa parata divertente e, al peggio, un insulto. Quella che mancava era un’aristocrazia reale.

Il bramino di Wall Street Henry Lee Higginson, temendo la ‘tremenda democrazia’ ”’ quell’intero zoo di radicalismi ”’ si appello’ con urgenza ai suoi pari per assumere il compito del dominio, ‘piu’ saggiamente e piu’ umanamente di quanto abbiano fatto re e nobili. La nostra occasione e’ adesso, prima che il paese sia pieno e la lotta per il pane diventi intensa. Vorrei i gentiluomini del paese alla guida degli uomini nuovi che stanno cercando di diventare gentiluomini’.

L’appello trovo’ orecchie sorde. Molti di questi erano capitalisti avventurieri, costruttori di dinastie, per i quali l’accumulazione era un’unica ossessione divorante. Potevano venire a patti con un’autorita’ esterna se vi erano costretti, manipolarla se erano in grado, ma altrettanto spesso facevano gli affari propri come se non esistesse.Educato a disprezzare la politica uno dei diaristi dell”Albo della Nobilta” ricordo’ di essere cresciuto durante il ‘grande barbecue’. Gli era stato insegnato a considerare la politica come qualcosa di ‘remoto, sconveniente e turpe, come il commercio degli schiavi o la tenuta di un bordello’.

Insieme, s’inventarono un mondo a parte dal caos commerciale, politico, sessuale, etnico e religioso che minacciava di avvilupparli. Una ‘citta’ bianca’ della classe superiore fatta di cavalleria, codici d’onore e lealta’ fraterne, manierata, libera da preoccupazioni e autoreferenziale era un laboratorio di autoindulgenza narcisistica, un ostentato ripudio di quei caratteri distintamente borghesi di prudenza, parsimonia e avidita’ di arricchimento.

Nati in un’eta’ definita dal vapore, dall’acciaio e dall’elettricita’, tentarono di isolarsi dalla modernita’ in un universo alternativo, in parte medievale, in parte europeo rinascimentale, in parte da Grecia e Roma antiche, un miscuglio di eta’ dell’oro. Il lungo diciannovesimo secolo aveva dato vita a una plutocrazia non istruita e mal disposta a conquistarsi la fiducia e a presiedere una societa’ che temeva. La plutocrazia preferiva invece atteggiarsi ad aristocrazia, confermando contemporaneamente tutti i popolari sospetti a proposito delle sue reali intenzioni e formando una societa’ che aveva dimenticato la societa’.

Forza bruta

Il distacco autoimposto e la pretenziosita’ feudale delle classi elevate lasciarono magre sul campo le istituzioni e i mezzi culturali della repubblica. Un sospetto indigeno di un governo dispotico, nato dalla fondazione della nazione, lascio’ l’apparato dello stato considerevolmente debole e sottosviluppato ben oltre il passaggio al ventesimo secolo. Tutte le sue risorse, cioe’, tranne una: la forza, il governo di uno strumento smussato. Il frequente ricorso alla violenza che tanto marco’ il periodo fu cosi la posizione predeterminata di una e’lite di governo in realta’ impreparata a governare. E naturalmente cio’ non fece che aggravare il dilemma del consenso. Coloro che soffrivano a causa dell’insensibilita’ delle classi dominanti erano sin troppo pronti a trattarle cosi come esse si rappresentavano, cioe’ da aristocratici, ma aristocratici usurpatori privi persino di una scintilla di autorita’ legittima.

Le classi superiori statunitensi non costituivano un’aristocrazia consolidata, ma potevano solo imitarne una. Mancavano del senso di dovere sociale, di noblesse oblige della prima, di quello che nel Vecchio Mondo era emerso come un ‘socialismo conservatore’ politicamente coerente che operava per acquietare gli antagonismi di classe. Ma neppure assorbirono l’ethos democratico che oggi consente alla e’lite dorata del paese di agire come se fosse semplice gente comune: una parodia sufficientemente credibile del populismo plutocratico. Invece, di fronte alla disaffezione sociale di massa, si rivolsero allo ‘spauracchio del barbone’ e ad altre innovazioni della tecnologia dei mitra, a eserciti privati delle imprese e a milizie governative, a restrizioni al voto, a ingiunzioni giudiziarie e a linciaggi. Perche’ comportarsi diversamente nel trattare la ‘feccia’ lavoratrice, una comunita’ di ‘bastardi incendiari’?

Uno storico ha descritto cio’ che accadde durante la Grande Rivolta come un ‘direttorio interconnesso di dirigenti delle ferrovie, ufficiali dell’esercito e dirigenti politici che costituivano il vertice della nuova e’lite di potere del paese’. Dopo Haymarket l’alta borghesia si diede alla costruzione di fortezze; Fort Sheridan, a Chicago, ad esempio, fu eretto a difesa dall”insurrezione interna’. Gli arsenali di New York, che dopo di allora sono stati da molto trasformati in campi coperti da tennis, sale da concerto e da teatro, furono originariamente eretti dopo l’insurrezione del 1877 per fare i conti con la canaglia operaia.

Durante lo sciopero dell’antracite del 1902 George Baer, presidente della Ferrovia di Filadelfia e di Reading e leader di proprietari di miniera, invio’ una lettera alla stampa: ‘I diritti e gli interessi del lavoratore saranno protetti e assistiti ‘¦ non dagli agitatori sindacali, bensi da uomini cristiani abbienti ai quali Dio ha dato il controllo dei diritti di proprieta’ del paese’. Alla Commissione Carbone Antracite che indagava la rivolta Baer proclamo’: ‘Questi uomini non soffrono. Che diavolo! Meta’ di loro neppure parla inglese!’.

Ironicamente, fu grazie in parte all’immersione nel bagno di sangue che cominciarono ad apparire, in mezzo a questa nuova e’lite, le prime forme rudimentali di una piu’ sofisticata coscienza di classe. Essa spaziava di villaggi Potemkin in stile Pullman a tentativi piu’ pratici di raggiungere un modus vivendi con elementi del movimento sindacale piu’ disposti ad accettare il sistema salariale.

Tuttavia l’arena politica, per quanto le sue principali istituzioni si piegassero alla volonta’ dei ricchi e potenti, restava un terreno ostentatamente contestato. Da un lato interessi potenti si affidavano a istituzioni statali sia per tenere in riga le ‘classi pericolose’ e per agevolare il processo di accumulazione primitiva. Ma un istinto opposto, nativo del capitalismo nella sua forma piu’ pura, voleva mantenere lo stato debole e povero affinche’ non s’ingerisse dove non era desiderato. A causa di tale ambivalenza lo stato statunitense era notoriamente sottonutrito, la sua burocrazia era mantenuta striminzita, amatoriale e automatizzata, la sua portata esecutiva e amministrativa rachitica.

Nessuna societa’ puo’ vivere indefinitamente su un terreno cosi instabile, lasciando irrisolte le questioni piu’ vitali. Anche prima del grandioso epilogo della Grande Depressione e del New Deal, stava emergendo una risposta alla questione del lavoro, una risposta che avrebbe posto fine alla lunga era dell’anticapitalismo. Sarebbe diventata l’anticamera dell’Eta’ dell’Acquiescenza.

Steve Fraser e’ storico, pubblicista, scrittore e collaboratore regolare di TomDispatch.  Il suo nuovo libro e’ ‘The Age of Acquiescence: The Life and Death of American Resistance to Organized Wealth and Power‘, di cui e’ offerto un estratto piu’ sopra. I suoi libri precedenti includono ‘Every Man a Speculator: A History of Wall Street in American Life’ e ‘Wall Street America’s Dream Palace’. E’ co-fondatore dell’American Empire Project.

Questo articolo e’ apparso in origine su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, co-fondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e del romanzo ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro piu’ recente e’ ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).

Da Z Net ”’ Lo spirito della resistenza e’ vivo

www.znetitaly.org

Fonte: [https:]

Originale: TomDispatch.com

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2015 ZNET Italy ”’ Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

(Tratto da: http://znetitaly.altervista.org)

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