Dai beni pubblici ai beni comuni

acqua_nn_si_vende_10x15_piccolo_Pubblichiamo qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, l’intervista a Stefano Rodotà, che chiude il volume “H2Oro. Le mani di pochi sul bene di tutti» di Alessandro Zardetto (Castelvecchi Editore). Intervista pubblicata anche su www.carta.org

1 milione e 400mila firme, un risultato epocale per una campagna referendaria. Professor Rodotà, si aspettava una risposta del genere?
Devo essere sincero?

Certo!
No. Ero sicuro che avremmo raggiunto le 500mila firme necessarie per proporre il referendum, questo sì. Ma una risposta così massiccia non la immaginavo. Intanto perché è una delle prime occasioni in cui nella macchina organizzativa non ci sono dei ‘professionisti’ del referendum, penso soprattutto ai Radicali. Protagonista, stavolta, è un mondo che non si era mai cimentato nella raccolta delle firme. Inoltre, e non è un dettaglio, è mancato il supporto del più importante partito della sinistra, il Pd. A tutto ciò bisogna poi aggiungere che non c’è stato nemmeno il sostegno mediatico. All’inizio, soprattutto, pochi mezzi d’informazione hanno parlato di acqua pubblica. Alcuni grandi giornali, alludo a quello di Confindustria, Il Sole 24 Ore, che ‘geneticamente’ è dall’altra parte, hanno proprio taciuto. Poi qualcuno, alla luce del successo senza precedenti della raccolta firme, ha cominciato a interessarsi a noi.
Immagino il suo impegno visto che è tra gli estensori di questo referendum…
Veda, non mi è stata espressamente richiesta una consulenza tecnica, la mia è stata una scelta di coscienza. Ho cominciato a studiare i temi della proprietà alla fine degli anni 50 e me ne sono occupato in vario modo e in varie sedi. Quando è venuta fuori la questione dell’acqua mi sono trovato, diciamo, coinvolto ‘naturalmente’. Non dimentichiamoci che questo è un tema planetario, che va oltre le frontiere italiane. Quello che succede da noi è un aspetto di una più vasta e complessa discussione.

È stato difficile stilare i tre quesiti referendari, di cui solo uno, alla fine dell’iter, è stato dichiarato inammissibile dalla Consulta?
No. L’obiettivo è condiviso da tutti e sette gli estensori. Personalmente ho avuto qualche perplessità iniziale di natura tecnica, visto il numero eccessivo di quesiti. Avendo fatto tutte le campagne referendarie so per esperienza che la molteplicità delle domande non aiuta il cittadino: per intenderci, il classico vota ‘sì’ o vota ‘no’ è sempre preferibile. Un altro mio dubbio nasceva dalla generale stanchezza referendaria che si avverte nel Paese, dovuta a un uso eccessivo dello strumento per temi distanti dal cuore delle persone come quello sulla modifica della legge elettorale, proposto da Segni e Guzzetta, che nel giugno del 2009 ha registrato una scarsa affluenza alle urne, determinando il fallimento dello stesso referendum.

Cosa le ha fatto sciogliere questi dubbi?
Scusi, lei è al corrente che fino al 12 di gennaio 2011 c’erano due proposte di referendum sull’acqua?

Lei allude al vostro e a quello dell’Italia dei Valori che però la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile…

Sì. Ebbene, mi sono chiesto quali scenari avrebbe aperto la vittoria del referendum proposto da Di Pietro, che si limitava solo ad abrogare il decreto Ronchi, senza riscrivere le modalità di gestione del bene. Un esito politico molto importante che però, allo stesso tempo, avrebbe aperto la discussione su cosa si dovesse fare nell’immediato futuro e in che modo legiferare. Si sarebbe avuta una pagina bianca che avrebbe comportato due rischi: intanto per il legislatore sarebbe stato meno stringente il vincolo della volontà popolare e nella peggiore delle ipotesi si sarebbe riproposta la situazione attuale.

Lei accennava al fatto di aver seguito tutte le campagne referendarie del passato. Il clima che si respira oggi è lo stesso delle consultazioni popolari che hanno cambiato la storia del Paese? Penso soprattutto al divorzio o all’aborto.
Direi di no. Il clima è molto diverso e per infinite ragioni. Lei mi ha chiesto del divorzio. Un referendum come quello fu un modo per liberarsi da una costrizione; è stato un momento in cui tutti i cittadini hanno potuto votare secondo coscienza e non secondo appartenenza poiché si votava su qualcosa che riguardava l’esperienza diretta delle persone, un dato sociale che tutti toccavano con mano. Lo stesso valeva per l’aborto, dove l’impegno del mondo femminile, compatto e determinato a rivendicare i propri diritti, è stato fondamentale per la vittoria. Nel caso dell’acqua l’esperienza personale non è la stessa per tutti. Solo chi vive in alcuni Comuni può veramente capire i mali della gestione privata e per questo la campagna dovrà essere il meno astratta possibile. Bisogna catturare l’attenzione delle persone attraverso carte, numeri, bollette che al tempo del divorzio o dell’aborto non servivano. Non si deve perciò fare ideologia: se a Ronchi ci contrapponiamo solo con le parole si rischia di non raccogliere il consenso dell’opinione pubblica. Basta che egli o il governo dicano che l’acqua rimane pubblica e che solo le reti vengono in parte privatizzate, il quorum non si raggiunge.

Interessante questo riferimento, da parte sua, all’ideologia: come giudica a tale proposito il ruolo dei partiti in questa battaglia? Mi riferisco soprattutto a quelli del centro-sinistra che dovrebbero opporsi al decreto Ronchi.
Male. Soprattutto se parliamo del Partito Democratico. Su temi importanti come l’acqua o la bioetica, altro argomento su cui si infiamma la discussione all’interno del partito, vedo un Pd in grossa difficoltà. La sua variegata composizione politica comporta una difficoltà enorme nel prendere decisioni. Sottolineo il biodiritto anche perché ogni volta che se ne discute, si tira in ballo un’inaccettabile scappatoia: la libertà di coscienza.

Inaccettabile?
Sì, inaccettabile. Quando si legifera sulla vita delle persone, la libertà di coscienza non è la libertà di chi vota in Parlamento bensì la libertà di chi poi si troverà costretto dalle norme che vengono applicate.

Almeno per l’acqua non dovrebbe esistere la libertà di coscienza…
Direi che non ci sono scappatoie. Per l’acqua bisogna avere una linea decisa e chiara. Se un partito non è in grado di affrontare una questione come questa è difficile che riesca a mettere in atto un’agenda del cambiamento, di cui tanto si dibatte.

Eppure il Pd ha presentato una proposta di legge sull’acqua…
Il Pd ha presentato al Senato una proposta di legge che nasce da una commissione da me presieduta (Commissione Rodotà nda). Un lavoro nato sotto il Governo Prodi, relativo ai beni comuni, tra cui l’acqua, che non sono declinabili con le categorie tradizionali della proprietà privata e pubblica. Il testo sembrava destinato a finire in un cassetto fino a quando un’iniziativa bipartisan della Regione Piemonte, sotto la presidenza Bresso, lo ha risuscitato facendolo oggetto di una iniziativa di legge regionale. Successivamente, come dicevo, il Pd lo ha preso in esame, lo ha modificato e presentato come proposta di legge. Tra le modifiche però c’è l’istituzione di una autorità che controlli e governi il bene: una vera contraddizione giuridica. Nel Pd, inoltre, sull’acqua ho visto un contrasto interno. Ci sono pezzi significativi del partito che, al contrario di altri, si sono mobilitati per il referendum.

Scusi se insito con il Pd ma gli organi direttivi del partito hanno detto più volte che la strada giusta non è il referendum ma la via parlamentare…

La facciano la battaglia in Parlamento! Come le ho detto, ci sono testi depositati per portarla avanti con successo. Sinceramente a me non pare che ci sia questa volontà.

Forse perché Bersani continua a ribadire di essere scettico sul referendum…
Guardi, sono abbastanza vecchio per aver visto questo gioco infinite volte. Se il Pd avesse veramente la priorità di legiferare sull’acqua pubblica, avrebbe tutto il tempo per arrivare prima del referendum che, al contrario, ha bisogno di tempi tecnici abbastanza lunghi. Se attendiamo senza esiti la via parlamentare, il decreto Ronchi si consoliderà e sarà troppo tardi. Perché non si mettono a lavoro? Io sono dell’opinione che il Parlamento, anche quando il referendum è alle porte, non debba rimanere fermo ad aspettare i risultati. Perciò, lo ripeto, se sono convinti vadano avanti!

Professore, ma sarà facile convincere gli italiani che una gestione pubblica sia meglio di una privata?
Non c’è dubbio che in diversi casi la gestione pubblica italiana abbia prodotto risultati pessimi. E’ vero anche che esiste una percezione diffusa di un ‘pubblico’ equivalente a spreco, carrozzone, clientela e corruzione. Se però ci arrendiamo all’idea che non si possa invertire la rotta, il privato avrà sempre la meglio. E con lui, gli interessi di pochi. Il privato vince non perché è più efficiente ma perché è preferibile allo stereotipo del pubblico che dobbiamo, invece, respingere. Per l’acqua bisogna proporre un modello di gestione che non torni a vecchi sistemi pubblici ma introduca il significato di bene comune. Pensiamo a Parigi, dove il privato ha fallito, oggi nella gestione pubblica la società civile ha un ruolo fondamentale sul controllo del servizio.

La Francia però ha una cultura civica differente dalla nostra…
Guardi, non è un problema culturale, la gestione delle reti idriche è l’esempio più efficace per capire quello che sto dicendo. Dove è sopraggiunto il privato, con i suoi interessi, abbiamo numerosi casi di aumenti spropositati delle tariffe. E’ sotto gli occhi di tutti. I numeri parlano meglio di chiunque altro. Perciò, come le dicevo prima, la campagna referendaria dovrà insistere su questo: indicare dettagliatamente, analiticamente quali e quanti siano i casi in cui la gestione privata sia stata disfunzionale e socialmente regressiva, individuando, contemporaneamente, i modelli alternativi, che sono il vero elemento di novità per il nostro Paese. Le dico di più. Io sono d’accordo con il collega Luca Nivarra (altro estensore del referendum nda) quando sostiene che sostanzialmente in Italia il concetto di ‘pubblico’ non esiste. Tutti si sono sempre sentiti proprietari del pubblico. I partiti, ad esempio, che non sono organi dello Stato, per il diritto del nostro Paese sono soggetti privati che di fatto si spartiscono da decenni la sfera pubblica. Così non può andare, bisogna prima uscire dalla logica del ‘pubblico’ per entrare il quella del ‘comune’. In una battuta direi che è il momento di ripubblicizzare il pubblico!

Bene comune e non bene pubblico, dunque…
Certo. I beni comuni vanno oltre la classica dicotomia pubblico-privato. E’ un altro modo di ‘possedere’, come dice Carlo Cattaneo. Sono beni a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può pretenderne l’esclusività. Sono l’acqua, l’aria, la conoscenza, i patrimoni culturali e ambientali, beni da amministrare con i principi di solidarietà e sostenibilità, nell’interesse delle generazioni che verranno. L’acqua, per essere salvaguardata, non è sufficiente che rimanga in mano a un soggetto pubblico: noi abbiamo l’obbligo di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo considerando la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi.

Bene comune come diritto fondamentale?
Sì, certo. Parlare di beni comuni significa parlare anche di diritti fondamentali. Io faccio sempre un paragone tra l’acqua e la rete. Consideri che da poco l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. Non molto tempo prima, il Parlamento europeo ha parlato dell’accesso ad internet come un altrettanto diritto fondamentale. Acqua e rete: sopravvivenza, conoscenza, eguaglianza, concetti che con le logiche del mercato e del profitto non hanno nulla a che vedere. Un tema globale e che ha radici lontane. Pensi che nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville scrisse che la lotta politica si sarebbe svolta tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono e il grande campo di battaglia sarebbe stata la proprietà. Allora si faceva riferimento alla proprietà terriera, oggi ai beni comuni. Questi sono al centro di conflitti internazionali, sono temi che riguardano il governo del mondo. Rimanendo all’acqua, che il controllo del bene sia sempre stato intrecciato con quello del potere lo sostiene anche un grande sociologo e sinologo come Karl Wittfogel, che ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una ‘società idraulica’, che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone.

Appunto professore, anche in Italia l’acqua è legata al potere…
Io immagino che ci possano essere delle pressioni da parte delle municipalità o delle imprese costituite per la gestione idrica ma la situazione è drammatica: dire che nelle varie gestioni la maggioranza sia in mano al soggetto pubblico è il risultato di un’arretratezza culturale. Anche sulla separazione tra proprietà e controllo ci sono studi pioneristici già negli anni Trenta. E’ infatti acquisizione della cultura giuridica che la gestione sia anche proprietà sostanziale. E’ il gestore che mette i soldi, che investe. Che io mantenga la maggioranza formale quando oltre il 40 per cento è in mano ai privati, capisce bene, come si determini una asimmetria che non è misurabile solo con le percentuali numeriche. Perciò ribadisco, la situazione è drammatica!

Articolo tratto da Acqua Bene Comune Org

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