Processo al biologico

granoPromossi il latte e la carne bovina. Incertezza sui vegetali. Uno studio ha esaminato tutte le ricerche fatte per stabilire se le coltivazioni naturali sono più sane di quelle tradizionali. E se vale la pena spendere di più. Ecco le risposte

AI Mercatino del biologico nel centro di Milano la prima bancarella che si incontra è di un’azienda agricola di Ponte Nizza, vicino Pavia. Esposte ci sono delle buste con le mele: tre chili, un euro e mezzo. Le coltiva proprio il signore dietro al bancone, e questo per i devoti dell’ecoshopping è un plus. Ma sulla confezione delle mele del signore di Pavia non c’è la fogliolina con le 12 stelle, il simbolo che per legge identifica i prodotti biologi.

Delusi? Più che altro preoccupati. Sentite perché.

«L’iter per la certificazione dei prodotti biologici è troppo complesso», spiega l’agricoltore: «Basta un’infiltrazione da un campo vicino per non ottenerla o vedersela revocata. Io so come coltivo le mie mele. E tanto basta. Perché non è detto che i prodotti certificati come biologici siano più salutari dei miei». Di certo sono più costosi: pochi metri più in là le mele costano 3 euro al chilo: vengono dalla Val di Non, in Trentino, e sulla busta troneggia il marchietto Bio. Basta da solo a giustificare una simile differenza di prezzo? Perché le stesse Golden italiane e biologiche persino in un supermercato costano 2,48 euro al chilo, mentre quelle tradizionali ne costano 1,68. Questa è la domanda che tutti gli eco-consumatori si fanno ma alla quale nessuno sa rispondere con certezza: perché i prodotti bio sono così cari? Sono più buoni? O più salutari? Chiedetelo a chi si occupa di salute e alimentazione e non otterrete risposta.

Per la scienza, la linea di demarcazione tra cibo biologico e “convenzionale” non è affatto netta giacché sebbene ormai gli studi sulle proprietà dei cibi biologici in relazione alla salute comincino a essere un bel numero, la gran parte di queste 620 ricerche non è condotta secondo criteri soddisfacenti sul piano scientifico.

 Alan D. Dangour, biochimico britannico, esperto di nutrizione e salute pubblica, ha appena finito di analizzare oltre 98 mila articoli scientifici sulle relazioni tra cibo biologico e salute, selezionandone 12 davvero significativi. Risultato: in un solo caso viene mostrata un’associazione tra una dieta strettamente biologica e la riduzione dell’eczema nei bambini.

 

La conclusione, riportata recentemente su “American Journal of Clinical Nutrition”, è che non ci sono abbastanza dati per mettere in evidenza eventuali altre differenze. «Non disponiamo di sufficienti informazioni dal punto di vista nutrizionale e della salute perché gli studi condotti finora hanno preso in esame troppo pochi campioni, o comunque quelli di una sola stagione, e i risultati si possono persino invertire da una stagione all’altra. Ad influire sulle proprietà di un alimento ortofrutticolo sono poi la varietà, il clima e il suolo, quindi è difficilissimo fare delle comparazioni», spiega Flavio Paoletti, ricercatore all’Inran, l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, che da anni si occupa di biologico e raccoglie dati in proposito. Ma se i lavori scientifici sono pochi e mancano di dare risposte definitive, il motivo per cui si dovrebbero spendere quegli 80 centesimi in più a cuor leggero è invece molto chiaro per chi nel biologico ci ha investito e ci crede. Non sta in ipotetici valori nutrizionali, ma nella certezza di mangiare un prodotto meno “inquinato” e ottenuto nel rispetto della biodiversità e del benessere del suolo (o degli animali, nel caso di alimenti non ortofrutticoli), senza ricorrere a pesticidi e fertilizzanti chimici, ma solo a sistemi e a sostanze “naturali”, derivate cioè da piante, animali o minerali. Una certezza che alimenta un giro di affari che in Italia viene ormai stimato in oltre 3 miliardi di Euro, mentre il mercato europeo ne vale circa 13 e quello mondiale più di 37, cifra raddoppiata rispetto a cinque anni fa. E che non si cura del fatto che alcuni prodotti biologici arrivano a costare più del doppio dei loro corrispettivi convenzionali, mentre un alimento bio, infatti, costa al produttore dal 20 al 30 per cento in più, in media, rispetto a uno non bio, fanno sapere dall’Aiab (Associazione italiana per l’agricoltura biologica).

 

«Nel caso dei prodotti ortofrutticoli, la differenza si deve al fatto che la produzione di un campo biologico è generalmente inferiore di quella di un campo coltivato con i metodi classici, perché i sistemi ecologici di difesa dagli insetti e dai funghi richiedono tempi più lunghi rispetto ai pesticidi chimici, e possono quindi essere meno efficaci», riferisce l’associazione.

Quanto agli animali, a far aumentare le spese degli allevatori sono i mangimi, che devono essere biologici al 95 per cento, e trasportati con avvertenze particolari che implicano un costo aggiuntivo. Nel caso di una mucca da latte, per esempio, l’animale ha in media lo stesso costo sia per l’azienda convenzionale sia per quella biologica: nel primo caso vive di meno (cinque anni invece che 11), ma lo svantaggio viene recuperato con la produzione di latte, visto che la mucca convenzionale produce 80 litri al giorno, contro i quasi 40 della mucca biologica.

Ma, per milioni di italiani ne vale la pena. Sono soldi spesi bene perché di certo c’è che non inquinano l’ambiente. «Se le regole sono rispettate e non ci sono frodi, questi prodotti contengono meno residui di pesticidi e meno nitrati – che sembrano aumentare il rischio di tumori – dei prodotti convenzionali», spiega ancora Paoletti: «L’accusa fatta da alcuni che i prodotti bio contengano tossine prodotte dai funghi, poi, non sussiste. E’ vero che non si usano fungicidi nel biologico, ma gli studi condotti finora non hanno rilevato differenze nella quantità di micotossine tra i prodotti bio e quelli convenzionali».

 

Per molti consumatori, anche in assenza di studi scientifici che dicano finalmente l’ultima parola sulla maggiore o equivalente salubrità del biologico, a contare nella scelta è il fatto che gli alimenti ortofrutticoli bio presentano una quantità significativamente inferiore di residui di pesticidi. «I fitosanitari chimici sono tutti vietati.

Se c’è contaminazione da un campo vicino, viene sospesa l’autorizzazione al prodotto, aperta una inchiesta e, in caso, revocata la certificazione a tutta l’azienda, spiega Andrea Ferrante, presidente dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab). Sono ammessi invece i bio-pesticidi, cioè sostanze derivate da animali, piante, batteri, ed alcuni minerali, come i feromoni, usati contro gli insetti. Queste sostanze, però, possono essere usate liberamente: secondo un rapporto Istat, nel 2008 sono state distribuite cinquecento tonnellate di formulati di origine biologica, quasi il 40 per cento in più rispetto all’anno precedente, che corrisponde a un aumento dei principi attivi in essi contenuti del 73 per cento. E sono ammessi anche zolfo, rame e il bicarbonato di sodio, elementi usati normalmente in agricoltura.

Ma a molti questo fa storcere il naso. «E’ vero, risponde Ferrante: «Ma l’azienda per poterli utilizzare deve dimostrare di essere prima ricorsa a tutti gli altri sistemi naturali per evitare attacchi da parte degli insetti infestanti. Resta poi un’altra questione scottante: il geneticamente modificato. Le coltivazioni bio ne tollerano la stessa piccola percentuale dei campi convenzionali: Io 0,9 per cento. Ma, sottolinea ancora Ferrante: «La loro presenza è tollerata esclusivamente in caso di contaminazione accidentale e inevitabile. In ogni caso, I’Aiab, insieme ad altre associazioni, sta mettendo dei paletti ancora più restrittivi su tutta la linea.

 

Molte delle questioni sul tappeto indicano quanto sia difficile assicurare purezza bio al 100 per cento. I campi sono circondati da altre colture e ne subiscono le conseguenze sia perché le sementi si muovono coi venti, sia perché l’ecosistema di una coltura influenza l’intero ambiente della zona e finisce inevitabilmente con l’incidere sui campi limitrofi. Insomma, una coltura per essere davvero bio dovrebbe essere tenuta in una bolla stagna, che certo non è di questo mondo.

 

A tutelare il senso della scelta bio, però, ci sono i controlli. «Gli enti certificatori fanno oltre sessantamila controlli l’anno, più di uno per azienda. Cui si aggiungono i controlli dei Nas e dell’Ispettorato per la repressione delle frodi», tranquillizza Ferrante. Supportato dai numeri: secondo quanto riporta FederBio, nel 2009 le infrazioni vere e proprie sono state riscontrate nel 2,95 per cento dei casi.

Articolo di TIZIANA MORICONI
Fonte: L’Espresso (settimanale 15-22 Dicembre 2010)
Pag. 112

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