Questo ma anche quello

di Gianfranco La Grassa 1. Sulla crisi mondiale, considerata fino a qualche tempo fa come la peggiore dopo quella del 1929 (si è fatto spesso riferimento pure a quella del 1907), si hanno notizie contraddittorie da un giorno all’altro. Il tema fondamentale è: ne siamo sostanzialmente fuori, ma la ripresa sarà lenta, tutto va quasi bene ma restano sul tappeto molti problemi, il Pil si sta riprendendo ma ancora per il 2010 aumenterà la disoccupazione, ecc. Più o meno, il tenore delle dichiarazioni è di questo tipo. In effetti, negli Usa non sembra che l’occupazione vada bene; di volta in volta poi si sostiene che, tutto sommato, gli Usa se la caveranno meglio della UE, oppure invece l’esatto contrario. Alcuni mettono in luce che il dollaro, sempre in netto calo, è comunque sostenuto dai cinesi; anzi che l’intero sistema finanziario americano ha bisogno dell’aiuto cinese. Altri sembrano nettamente contrari a tale tesi (e, sinceramente, ma solo “a naso”, mi convincono di più questi ultimi). Resta il fatto che si sta proponendo da più parti di affiancare altre valute al dollaro per le principali transazioni internazionali, magari anche su mercati energetici. Altre quattro banche americane (ma minori) sono fallite. Il sistema bancario è stato tuttavia abbondantemente innaffiato dallo Stato; la Goldman Sachs, che un anno fa era data per nettamente ridimensionata, è tornata a giocare il suo ruolo, rilevante soprattutto politicamente e non soltanto economicamente. In definitiva, si nota sempre più frequentemente che, dopo tante chiacchiere sulla necessità di cambiamenti radicali del sistema bancario (facendo perfino ampio ricorso all’ideologia dell’“etica negli affari”), le grandi banche hanno ripreso i loro giochetti finanziari, quelli che hanno condotto al dissesto (ma, prima, a grandi guadagni), e tornano ad assegnare notevoli emolumenti ai manager. Se ci spostiamo in Europa, la coerenza non aumenta; e tanto meno in Italia. Impossibile, per chi non abbia a disposizione notizie di prima mano dagli ambienti politici ed economici che contano, potersi fare una qualche idea in merito all’andamento della crisi: se dobbiamo solo aspettarci code della stessa o possibili ricadute o una sedicente ripresa in tempi lunghi e con percorsi assai accidentati e tormentosi. Da un po’ di tempo si tace, ma non sono passati nemmeno due mesi da quando si facevano previsioni assai pessimistiche sull’occupazione nella UE per l’anno prossimo. Del resto, le stesse previsioni intorno agli aumenti del Pil sembrano francamente non denotare nei vari paesi – Italia forse la peggiore o quasi – prospettive di robusta ripresa. Se veniamo in particolare al nostro paese, impossibile fare un elenco delle dichiarazioni di volta in volta pessimistiche od ottimistiche. L’ultima nota (Confindustria con parere concordante, se non mi confondo, della Banca d’Italia) è quella della possibilità che un milione (e anche più) di piccole imprese chiuda l’attività. Mi sembra che la vera evidenza sia quella di una presunta informazione solo in grado di produrre “rumore”; nessuna correttezza, tutto è stabilito in base alle convenienze delle varie parti economiche e politiche, a seconda delle diverse contingenze e dei differenti bisogni in ogni data contingenza. In particolare, quando c’è bisogno di esigere aiuti (soprattutto statali) e di respingere richieste sindacali, la crisi è decisamente ostica e fa ancora paura, è tutt’altro che domata. Quando si cerca di infondere fiducia negli attuali organismi dirigenti (non solo a livello governativo, molto più in generale), allora è d’obbligo sostenere che si è sulla buona strada; è ancora dura, dobbiamo superare qualche ostacolo (tenuto sempre pronto per il prossimo bisogno di sventolare pessimismo), ma ormai la luce in fondo al tunnel si vede. Credo sia inutile badare alle varie dichiarazioni. Non sono il tipo che pensa ad una semplice ripetizione di passati processi storici; nemmeno mi trincero dietro conclusioni tratte deterministicamente da certe tesi teoriche, che – lo ricordo sempre nei miei scritti – non sono altro che ipotesi provvisorie necessarie al tipico percorso del prova-sbaglia-riprova, l’unico da utilizzare nella “caccia alla preda”. Quando la gazzella, impaurita, zigzaga all’impazzata, il leone che l’insegue, se non vuole sfiancarsi e farsi venire un “giramento di testa”, deve provare percorsi meno spezzati e caotici, però sempre con una serie di aggiustamenti di periodo in periodo. Può andargli male, ma tutto sommato anche il leone applica una certa forma di razionalità e cerca di accrescere le probabilità di successo. In base alle ipotesi fatte, ormai da molto tempo, circa l’affermarsi nel medio periodo di un nuovo policentrismo attraversando la fase multipolare già da qualche anno iniziata, propenderei per una previsione di massima che riguarda solo in parte la presente crisi, avendo carattere più generale. Dovremmo entrare in un periodo in cui l’economia – su cui si appunta sempre la massima attenzione poiché, metaforicamente, è il terremoto che più duramente incide, con diversa forza, sulla vita delle popolazioni, essendo però il risultato di ben più vasti e potenti scontri in profondità, che accumulano energia per anni e la scaricano in superficie mediante una successione di scosse di varia intensità e durata (breve) – dovrebbe andare incontro ad un andamento di crescite e diminuzioni caratterizzanti comunque una fase storica di difficoltà, in cui si verificheranno netti mutamenti dei rapporti sociali sia sul piano globale che al livello interno delle varie società “nazionali” (ove più ove meno). Il precedente cui fare riferimento – senza mai pensare che i fenomeni saranno gli stessi e dunque riconoscibili “a occhio nudo” – è la lunga fase di fine ottocento, detta di sostanziale stagnazione; in realtà, di dinamico sviluppo se per questo si intende non il semplice dato economico, bensì il profondo mutamento della struttura sociale e geopolitica, contrappuntato dalle innovazioni (tecniche, energetiche e organizzative) che sono passate alla storia come “seconda rivoluzione industriale”. Si è trattato – e questo fu il suo carattere decisamente più rilevante – della cosiddetta “epoca dell’imperialismo” che vide l’aspra lotta susseguente al declino della potenza inglese, una lotta (tra Usa, Germania e Giappone) per la successione. Mi sembra abbastanza evidente che stiamo entrando in un’altra epoca del genere; ne siamo però all’inizio, gli Usa non sono proprio declinanti come alcuni pensano, ma certamente non dettano più legge da ormai qualche anno. I giochi fra nuove potenze – anche quelle che sembrano la semplice rinascita di vecchie, come la Russia lo sarebbe dell’Urss, sono invece qualcosa di radicalmente nuovo – vanno particolarmente seguiti; le eventuali crisi economico-finanziarie devono essere inquadrate e comprese con riferimento all’ambito geopolitico complessivo. 2. La situazione nel nostro paese è, se possibile, ancora più pasticciata di quella esistente sul piano internazionale; certamente più meschina. Inutile fare una cronistoria di tutte le, almeno apparenti, contraddizioni in cui sono immerse le varie forze politiche, espressione però, ne sono convinto, di scontri di potere tra alcuni grandi gruppi di pressione, anche economici, scontri i cui contorni sono comprensibili solo molto all’ingrosso. Lo scadimento della lotta politica, sostituita da operazioni giudiziarie e scandali sessuali, mi sembra del tutto evidente. Non c’è unità di vedute nel centrosinistra (non credo per nulla che le primarie, questa comica imitazione “paesana” degli Stati Uniti, abbiano risolto le questioni interne a tale schieramento); non c’è unità di vedute nel centrodestra, dove la “questione Tremonti” – ammessa esplicitamente, una volta tanto, dai giornali più rappresentativi di tale versante politico, con assai differenziati punti di vista dei diversi giornalisti – è spia di confusione, ma anche di trasversalità di posizioni tra diverse fazioni dell’uno e dell’altro aggregato, molto informi ormai, che si continuano a definire con gli schemi (destra, sinistra, centro) di cinquant’anni fa o giù di lì. Non entro nei particolari, che devono semmai far parte di analisi politiche successive e specifiche. Rilevo solo, in generale, che non si possono comprendere le diatribe in corso – e comprenderle perfino, si scusi il bisticcio, nella loro frequente incomprensibilità e sicura contraddittorietà – se non si fa riferimento alla lotta internazionale in corso, in cui l’Italia rischia la classica figura del “vaso di coccio”. Inoltre, come la crisi economica, anche le scosse che attraversano le diverse forze politiche hanno origini più profonde; appunto internazionali, ma anche nazionali. Le numerose organizzazioni di categoria, professionali, ecc. (per non parlare dei sindacati lavoratori) manifestano un’ambiguità che è sempre stata la loro caratteristica (almeno da alcuni decenni), ma sta raggiungendo ora picchi da “primato”. Forse la più impellente “riforma” dovrebbe riguardare la Confindustria, i cui vertici non rappresentano in pratica per nulla il peso dei settori più vitali della nostra economia: da quelli di grandi imprese strategicamente rilevanti (tipo Eni, Finmeccanica, anche Enel; e non perché in buona parte controllate dal settore “pubblico”) a quelli delle cosiddette piccolo-medio imprese (e lavoro “autonomo”): e pure in tal caso, non certamente per tornare alla sciocca definizione di altri tempi (il “piccolo è bello”), ma per una questione rilevante come quella dei “blocchi sociali” (oggi in pratica inesistenti). Ho troppo poche informazioni, non essendo parte, nemmeno di striscio, dell’establishment. Secondo me, deve essere pure compiuto un ripensamento teorico e storico (in quest’ultimo ambito con riferimento principale al nostro paese); importanza notevole riveste poi la geopolitica della fase in corso, in via di mutamento verso il multipolarismo con i suoi riflessi sulle strutture sociali del capitalismo (dei capitalismi). Un’attenzione particolare va infine prestata alle specificità “strutturali” italiane e alla politica estremamente confusa che si va attuando in questo momento nel nostro paese; transitorietà o sintomo di pericolose involuzioni fatte passare magari per soluzioni “progressiste”? Ci si sforzerà di capirci qualcosa; dicendo pane al pane, senza peli sulla lingua né schemi mentali preconfezionati. Soprattutto, rinunciando alla sclerotica distinzione: destra/sinistra.


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