La Cina compra l’Africa, un far west senza liberta’

Strade e ponti in cambio di petrolio. Ospedali in cambio di rame e cobalto. La Cina si sta comprando l’Africa pezzo a pezzo, e lo sta facendo sotto i nostri occhi. Colonizzazione del terzo millennio, la si potrebbe chiamare. Affamata di materie prime e pronta a cucirsi addosso un nuovo ruolo globale, la Cina si sta proponendo oramai sempre più apertamente come nuova portavoce del mondo in via di sviluppo, riprendendo il filo di quella Conferenza di Bandung che nel 1955 – grazie alla lungimiranza e al genio politico di Zhou Enlai, uno dei veri padri della Repubblica popolare cinese – diede vita al gruppo dei “non allineati”. 

Ma, intanto, in quel mondo in via di sviluppo si sta espandendo con una spregiudicatezza notevole. Nel continente nero molto più che altrove. E questo dovrebbe preoccuparci.

C’è, in tutto questo, un doppio beneficio per Pechino. Uno sfogo per il suo flusso di produzioni (dai vestiti ai telefonini) e, quel che più conta, una fonte preziosa e quasi vergine di materie prime e fonti di energia: cibo necessario per un gigante in marcia verso uno sviluppo che, al momento, pare insostenibile. Meno evidenti sono le ricadute positive per l’Africa.

I grattacieli di Luanda, la capitale dell’Angola (il principale partner cinese nel continente), testimoniano la concretezza degli aiuti di Pechino. Ma vale la pena avere uno stadio in più, sapendo che le merci a basso costo che inondano il paese soffocano le produzioni locali? Vale la pena farsi costruire una strada nel deserto, per prosciugare le proprie miniere e a beneficio di un’economia straniera?

Se lo è chiesto, di recente, anche Angelo Ferrari, giornalista dell’Agenzia Italia, nel suo Africa gialla: un viaggio in Angola, paese uscito da vent’anni di guerra civile per imboccare la strada di questa nuova e più subdola forma di sfruttamento. Un racconto a tratti da incubo, fra bambini minatori che grattano il cobalto a mani nude, città in cui a dividere i pochi ricchi dalla miseria c’è un abisso ogni giorno più profondo, e detenuti cinesi esportati come operai non pagati e poi lasciati lì, con una nuova casa e un po’ di terra regalata dalle autorità.

C’è un termine sempre più usato per definire questo nuovo personaggio della storia contemporanea: Cinafrica. Ed è anche il titolo di un libro, un reportage di Serge Michel e Michel Beuret che, accompagnati dal fotografo Paolo Woods, hanno percorso quindici paesi di questo “Far west del ventunesimo secolo”. È la testimonianza di un’ epopea il cui epilogo pare essere, sempre e comunque, quello della povertà, per chi proviene dalle remote campagne cinesi come per chi abita le bidonville di qualche metropoli africana. Il racconto di una frontiera che non ha nessuna libertà da regalare.

Due anni fa il presidente cinese Hu Jintao si avventurò in un gran tour africano. Doveva essere un trionfo, un viaggio per raccogliere gli applausi di un continente grato. Dopo essere passato in Sudan firmando fascicoli di accordi e tacendo sugli orrori che si consumavano in Darfur, ad attenderlo in Zambia trovò, più che gli applausi, fischi e proteste: per i lavoratori senza garanzie di sicurezza (decine e decine di morti), per i sindacati disciolti, per gli spari su chi chiedeva qualcosa in più di due dollari al giorno (“non ci considerano neanche esseri umani”, disse uno di loro, subito messo a tacere).

Pochi mesi prima, nelle fastose sale della Città proibita, era stato organizzato un elefantiaco vertice con i leader di tutti i paesi africani: per Pechino, un modo simbolico (e pienamente cinese, dunque) di mostrare al mondo il nuovo ruolo di grande sponsor dell’Africa. E di grande compratore.

Ecco, tutto questo dovrebbe preoccuparci. Non solo per motivi strategici e geopolitici, perché l’Africa ce l’abbiamo di fronte. Non solo per evidenti ragioni commerciali ed economiche. Ma per un altro aspetto, forse ancora più drammatico. Il fatto è che ai cinesi del futuro dell’Africa non interessa nulla, fondamentalmente. I diritti umani sono un intralcio in patria, figuriamoci in un altro continente. E allora con i tiranni si fanno affari, senza problemi di sorta, vanificando il pur minimo effetto delle (troppo flebili) voci che da Occidente talvolta si alzano contro i tiranni grandi e piccoli, da Mugabe ad Al Bashir, che ancora infestano l’Africa.

Chi difende Pechino, accusa l’Europa e l’America di “ipocrisia”, rispolvera le tragedie del colonialismo e sottolinea le colpe del capitalismo, del mercatismo e della globalizzazione. Non è un argomento convincente. La Cina è molto peggio, e gli africani probabilmente lo hanno capito più di noi.

(Federico Brusadelli, www.ffwebmagazine.it).

Be the first to comment on "La Cina compra l’Africa, un far west senza liberta’"

Leave a comment