Una commissione di modello sud africano?

Accade, di tanto in tanto, che riaffiori la proposta di superare i “misteri d’Italia” con una soluzione di tipo sudafricano: una speciale commissione che garantirebbe l’impunità penale a chi confessi le responsabilità proprie e altrui in casi di delitti politici. Insomma, perdono in cambio di verità. Di volta in volta, la proposta è riferita allo stragismo, ai tentativi di colpo di Stato, al terrorismo di sinistra, al caso di Ustica, alla corruzione politica e persino alle stragi di mafia (di Aldo Giannuli).


Recentemente la proposta è stata nuovamente avanzata dal dottor Guido Salvini e, poco prima, da Luigi Manconi nel suo libro sulle Brigate rosse (Rizzoli, Milano 2008). La proposta venne avanzata quasi dieci anni fa in Commissione stragi dal capogruppo An, Alfredo Mantica e venne accolta benevolmente anche dal presidente Giovanni Pellegrino.

La proposta può avere un fascino: finalmente conoscere cosa è successo realmente in quegli anni liberando chi sa dal timore della punizione.

Ma funzionerebbe? E quali a quali controindicazioni andrebbe incontro?

Partiamo da una considerazione elementare: non per tutti i colpevoli, l’impunità basterebbe a confessare, perchè potrebbe trattarsi di persone economicamente o politicamente influenti e una simile confessione li rovinerebbe.

Peraltro, sulla grande maggioranza di questi casi non sono attive istruttorie penali e non ci sono indagati, per cui non si capisce perchè un terrorista di destra o di sinistra o un politico corrotto o quel che vi pare, dovrebbe spontaneamente confessare, non correndo alcun rischio di condanna penale.

Ma, si obietterà, ci sono casi in cui istruttorie penali e processi sono in corso. Già, ma questo complica le cose, non le semplifica. Dunque questa Commissione dovrebbe interrompere processi ed istruttorie sottraendo i casi alle rispettive autorità giudiziarie: una prassi di così palese incostituzionalità da non meritare nessun commento.

Allora si potrebbe fare in modo che i processi proseguano, e che la Commissione vada avanti autonomamente, dopo, al momento della sentenza, magari, la confessione varrebbe come criterio per la sospensione della pena. Altra cosa costituzionalmente fuori dal mondo.

Vice versa, e tenendo presente il caso di “imputati” eccellenti, si profilerebbe un altro rischio, quello dei “pentiti-civetta”: un gruppo di persone si accusa di un episodio, per il quale sono già inquisiti altri che, ovviamente, vanno prosciolti. In realtà, il gruppo dei pentiti è stato lautamente pagato per questo, non rischia nulla perchè è garantita l’impunità e i riscontri glieli hanno forniti gli avvocati di chi è stato assolto.

Va detto che commissioni per la verità sonos state istituite non solo in Sud Afrca ma anche in molti altri paesi (Cile, Rwuanda, Filippine ecc.) ma di verità ne hanno prodotta pochissima o per nulla. Ma la vera funzione di queste commissioni non è affatto quelal di produrre verità, quanto quella di pacificare paesi appena usciti da dittature e guerre civili, ricostruendo un velo di condizioni di coesistenza civile.

Non sembra che in Italia siamo in questa condizione.

Si porrebbe poi il problema di come costituire questa Commissione: parlamentari o “saggi” esterni al Parlamento? In Sud Africa la soluzione è stata la seconda con u gruppo di eminenti personalità guidate dal premio Nobel Desmond Tutu. Ma in Italia un organismo del genere non è lontanamente previsto dalla Costituzione per cui occorrerebbe prima una legge di revisione costituzionale. E poi: dove stanno queste personalità indipendenti così autorevoli che il Parlamento potrebbe nominare, si immagina, a maggioranza più che qualificata?

La soluzione interna al Parlamento profila l’ eventualità di un orrendo mercato delle vacche, basato su reciproche amnistie ed amnesie.

Inoltre, chi giudicherà se il “pentito” ha detto la verità, la Commissione o la magistratura? Nel primo caso l’incostituzionalità è palese, nel secondo la Commissione non serve a nulla e, tanto vale, affidare direttamente la cosa ai giudici. Il rischio concreto è quello di ottenere, in cambio di perdono, non verità ma oblio, quel che unirebbe la beffa al danno.

Questa proposta “perdonista” ci ricorda un istituto del diritto penale borbonico, il truglio (cui Nico Perrone dedicò un delizioso libretto una decina di anni fa): il “truglio”, chi si “pentiva”, facendo delazione, era graziato o condannato a diversa pena (qualche anno di ferma militare o l’esilio). Alcuni se ne servirono per sommari regolamenti di conti con nemici privati, altri per ottenere indulgenze per reati comuni, in qualche caso fu l’autorità stessa a sollecitare finti pentimenti per perseguitare pubblici oppositori e nemici personali: di “verità” ne emerse davvero poca.

Oggi un “grande truglio di Stato”, non sarebbe un mezzo per conoscere la verità, quanto piuttosto un macigno sulla sua strada.

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