Subprime, rischiare con i soldi altrui

E’ più facile scommettere con i soldi degli altri. Una semplice verità che è alla base delle crisi finanziarie, compresa quella dei subprime. Con la cartolarizzazione dei prestiti, gli intermediari finanziari non hanno alcun interesse a valutare l’affidabilità del cliente. Tanto più se le banche cercano di sfruttare al massimo le possibilità che si aprono con i nuovi strumenti finanziari. Ma ciò che il denaro facile degli anni Duemila ci ha dato, ci sarà tolto dalla stretta creditizia che si annuncia. Senza dimenticare che la crisi potrebbe allargarsi ad altri settori [Daniel Cohen, www.lavoce.info].

 


Che cosa c’è alla base delle crisi finanziarie? Una cosa molto semplice, che può essere riassunta in poche parole: si tende a scommettere più facilmente con il denaro degli altri che con il proprio.

Il ragionamento tipico di un gestore di fondi di investimento o innovatore finanziario è: “Se vinco, il mio profitto sarà proporzionale alle vendite lorde che ho prodotto. Se perdo, sarò licenziato e forse perderò la mia reputazione”. Se va avanti nel ragionamento, il gestore si accorge che i lati negativi si limitano al licenziamento, mentre quelli positivi non hanno limiti. L’asimmetria tra guadagni e perdite incoraggia l’audacia: una volta superata una certa soglia di rischio, il gestore finanziario che piazza scommesse con i soldi degli altri, ignora il pericolo. Dal punto di vista sociale, il problema nasce della divergenza degli incentivi. Anche se l’intermediario è consapevole che potrebbe ricavarne una notevole perdita personale, questa non sarà mai comparabile alle perdite inflitte ai risparmiatori.

LA FINANZA DI PANGLOSS

Questa semplice regola – i profitti sono miei (almeno in parte), mentre le perdite sono di altri – ci permette di capire il “meraviglioso mondo della finanza”. Il gestore vive in un mondo di valori “panglossiani”, per utilizzare un’espressione di Paul Krugman: proprio come il personaggio di Voltaire, l’investitore vede soltanto il lato positivo dell’affare e non prende in considerazioni i rischi, non per negligenza, ma razionalmente. È un meccanismo che spiega le crisi del debito sovrano degli ultimi quaranta anni. (1) E può aiutarci a comprendere la crisi dei subprime dello scorso anno.

I principi panglossiani spiegano perché per la finanza sia necessaria una regolamentazione. Le regole prudenziali fissano un rapporto minimo tra capitale delle banche e ammontare dei loro investimenti. L’idea è di obbligarle ad avere sempre la liquidità necessaria per pagare, e dunque per anticipare, le potenziali perdite. Viceversa, la crisi dei subprime dimostra come funzionano le cose quando attraverso vari artifici gli intermediari finanziari riescono a liberarsi dei vincoli della regolamentazione.

All’origine della crisi dei subprime c’è una brillante innovazione. Per offrire crediti immobiliari a tassi interessanti a un pubblico più ampio di investitori, gli ingegneri di Wall Street hanno avuto l’idea di suddividere i portafogli con attività ipotecarie in diverse tranche: le tranche di più elevata qualità sono pagate per prime, seguite da quelle di medio livello, mentre le tranche di livello più basso sopportano il rischio di un eventuale fallimento. Si costruisce così un ventaglio di attività diversificate, che attraggono vaste categorie di investitori: fondi pensione per le tranche a livello più elevato e fondi speculativi per le attività di rischio.

L’invenzione, realizzata nel 1983 da una consociata della General Electric, era inizialmente rivolta ai normali mutuatari. Nonostante una prima crisi nel 1994, la tecnica decolla nel 2000, rendendo possibile l’allargamento della platea di famiglie che possono accedere a prestiti ipotecari: grazie agli ormai famosi subprime, anche le classi sociali più svantaggiate possono finalmente acquistare una casa a credito. ÈWall Street che va in soccorso di Harlem con i prestiti “ninja”, dall’inglese “no job, no income, no assets”, ovvero nessun reddito, nessun lavoro, nessuna garanzia.

LA PRIMA FASE

Il crollo del sistema dei subprime si dipana in diverse fasi, ognuna delle quali rivela la visione panglossiana degli intermediari finanziari. A monte della crisi, un fatto è diventato presto chiaro: la qualità di ipoteche così estese si è profondamente deteriorata, anche tenendo conto della nuova clientela per la quale erano pensate. L’affidabilità sotto il profilo del credito dei clienti è stata sistematicamente sovrastimata dagli intermediari responsabili della concessione dei mutui ipotecari. La causa del deterioramento è evidente. Un tempo, con la vecchia scuola del prestito bancario, gli emittenti di un prestito era anche coloro che successivamente lo incassavano, e dunque avevano un incentivo a valutare correttamente l’affidabilità del cliente. Con l’avvento della cartolarizzazione dei prestiti, l’agente che emette il prestito lo rivende immediatamente sui mercati finanziari. Gli incentivi sono completamente cambiati: ciò che conta è moltiplicare i numeri, non valutare la qualità del cliente.

LA FASE DUE

Ma questo è solo il primo piano del castello di carte, il secondo è la leggerezza delle banche stesse. Per approfittare al massimo delle nuove opportunità nei prestiti ipotecari, le banche hanno creato nuovi strumenti fuori-bilancio, i “veicoli strutturati di investimento”, i famigerati Siv. Immettendo le nuove attività in questi strumenti ad hoc, le banche si sono liberate delle regole prudenziali e hanno potuto sfruttare la leva finanziaria per finanziare operazioni a credito assai redditizie, senza dover ricorrere al proprio capitale. La macchina delle scommesse con il denaro altrui si è così messa in moto.

La crisi iniziata nell’estate 2007 ha rivelato l’ampiezza del fenomeno: le perdite vanno dai 422 miliardi di dollari indicati dall’Oecd ai 945 miliardi dell’Fmi. Qualunque sia la cifra finale, che dipende dell’evoluzione della crisi, siamo in presenza di un effetto di “leverage” al contrario, quello che a Wall Stret chiamano appunto “deleveraging”. Le banche sono costrette a ridurre il volume dei prestiti, (ri)proporzionandolo al capitale, proprio nel momento in cui questo si riduce a causa delle perdite. Diventa perciò inevitabile una contrazione del credito, che generalmente porta alla recessione.

LA FASE TRE

E siamo così al terzo piano del castello di carte: la bolla immobiliare. Il denaro facile degli anni Duemila ha provocato un’esplosione dei prezzi delle attività, e in particolare di quelli immobiliari, che ha permesso alle famiglie americane di vivere acredito. Un sistema estremamente lassista ha fatto sì che il loro debito aumentasse progressivamente via via che cresceva il valore delle proprietà immobiliari. Tutto va bene finché i prezzi salgono, quando invece i prezzi cadono, le famiglie il cui mutuo eccede il valore della casa possono chiedere o essere costrette al fallimento.

LA FASE QUATTRO

Entra di nuovo in scena il ragionamento panglossiano, ma questa volta a farlo è chi chiede il prestito. Le famiglie più fortemente indebitate hanno un incentivo a scommettere sul protrarsi della crescita, ignorando il rischio di un rovesciamento del mercato. E il rischio maggiore è nell’andare avanti a farlo. Negli Stati Uniti, la caduta nel prezzo delle case ora ha raggiunto un tasso annuale medio del 10 per cento. Si è avviato un circolo vizioso: la riduzione dei prezzi obbliga le famiglie a dichiarare bancarotta, il che porta le banche a mettere all’asta le case non pagate, con un’ulteriore riduzione dei prezzi. Molte di quelle stesse famiglie, poi, hanno preso in prestito altro denaro per acquistare automobili, hanno utilizzato in maniera disinvolta la carta di credito e così via: il “deleveraging” delle famiglie più deboli potrebbe diffondere la crisi ben al di là dei mutui.

Quello che il denaro facile ci ha dato negli anni Duemila, ci sarà tolto dalla stretta creditizia dei prossimi anni. È iniziato il “deleveraging” a tutti i livelli: per le banche, per le istituzioni finanziarie, come i fondi speculativi e le società di private equity, che hanno utilizzato la leva finanziaria fino all’estremo, per le famiglie stesse. Èil disincanto verso il mondo della finanza? Senza dubbio. Fino alla prossima volta.

(1) Cohen, Daniel e Sebastien Villemot (2008). “Self fulfilling and self enforcing debt crises” Cepr, Discussion Paper 6718.

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox. I commenti possono essere inviati in lingua originale al sito da cui l’articolo è tratto

 

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