Salari: Confindustria non può guardare da un’altra parte

Da dieci anni il nostro paese aspetta una revisione degli assetti contrattuali. Per spostare il baricentro della contrattazione a livello di azienda, dove si può meglio incentivare la produttività, cercare un’organizzazione del lavoro più efficiente, premiare il merito collettivo e individuale e migliorare le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno. Ma tutto tace mentre quasi il 70 per cento dei lavoratori dipendenti è oggi in regime di vacatio contrattuale. Le aziende private, ristrutturate ed efficienti, che hanno unilateralmente deciso di rimpinguare le buste paga dei loro dipendenti, dovrebbero ora guidare una vera riforma della contrattazione [di Tito Boeri, www.lavoce.info].

 


Da sempre le leadership delle parti sociali, sindacato e Confindustria in primo luogo, mancano di spirito autocritico. Forse perché non rispondono direttamente ai cittadini, agli elettori, non sono politically accountable. Anche Angelo Costa, compianto presidente della Confederazione generale dell’industria negli anni della ricostruzione, negava che i dazi applicati allora dal nostro paese proteggessero i suoi associati dalla concorrenza. Scriveva ben prima dell’entrata in vigore della Comunità europea del carbone e dell’acciaio: “Oltre il 90 per cento delle industrie italiane agisce in regime della più libera e accanita concorrenza (…) I rari casi di industrie concentrate in poche aziende o gruppi si riferiscono generalmente a prodotti a prezzi controllati dallo Stato o soggetti alla concorrenza estera, per cui non possono esistere utili di monopolio”.

I salari in Italia

Non sorprendono perciò le reazioni al discorso pronunciato dal governatore di Banca d’Italia alla riunione della Società degli economisti di Torino. Mario Draghi non ha, per una volta, parlato di conti pubblici, ma ha trattato di salari. Riprendendo i risultati di un lavoro recente condotto dal centro studi della Banca, ha documentato come in Italia i salari in ingresso siano diminuiti negli ultimi dieci anni in termini reali. A parità di potere d’acquisto, oggi sono inferiori del 30-40 per cento rispetto ai livelli di Francia, Germania e Regno Unito. Come messo in luce dai grafici allegati alla relazione, il divario con gli altri paesi si riduce solo per i lavoratori più anziani, in virtù di scatti automatici, legati all’anzianità anziché alla produttività. Questo pone di fatto i giovani in una condizione di sempre maggiore svantaggio relativo e impedisce che gli investimenti in istruzione vengano adeguatamente remunerati.

“Noi la nostra parte l’abbiamo fatta”, ha sottolineato il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, mentre da Caserta chiamava pesantemente in causa l’immobilismo dei governi succedutisi negli ultimi dodici anni. Certo, il livello e la struttura dei nostri salari evidenzia problemi strutturali del nostro sistema formativo, che costa come nel resto d’Europa, ma offre una formazione di minore qualità. Anche l’elevata pressione fiscale e la sua forte concentrazione sul fattore lavoro riducono gli incentivi a investire in capitale umano. Ma quando si parla di salari non ci si può limitare a guardare da un’altra parte, come se si trattasse di argomento che non riguarda la principale associazione dei datori di lavoro.

Contratti e iniziative di singole aziende

Da ormai dieci anni, da quando siamo di fatto entrati nell’Unione monetaria europea, il nostro paese aspetta una revisione degli assetti contrattuali. I contratti nazionali servivano nell’avvicinamento all’euro, per interrompere il sentiero delle svalutazioni competitive che tanto male avevano fatto al nostro paese, soprattutto ai percettori di redditi fissi. Una volta entrati nella moneta unica, bisognava cambiare registro, spostando decisamente il baricentro della contrattazione, a livello di azienda, dove si può meglio incentivare la produttività, cercare un’organizzazione del lavoro più efficiente, premiare il merito collettivo e individuale e dove i salari possono meglio riflettere le condizioni del mercato del lavoro locale, facendo aumentare l’occupazione nel Mezzogiorno. Se la contrattazione non è stata riformata, se quasi il 70 per cento dei lavoratori dipendenti italiani sono oggi in regime di vacatio contrattuale (aspettano che il loro contratto, già scaduto da tempo, venga rinnovato), non è certo solo colpa di Confindustria. Le divisioni fra Cgil, Cisl e Uil hanno certamente influito su questa paralisi. Ma anche le associazioni datoriali e, soprattutto, le grandi imprese non sembrano avere fatto molto per decentrare la contrattazione. Forse perché il regime centralizzato permette loro di pagare di meno il lavoro qualificato e tiene basso il costo del lavoro, per non gravare troppo sulle imprese meno efficienti e sul depresso mercato del lavoro meridionale.

Può darsi che in questo “la nostra parte l’abbiamo fatta” si volesse richiamare la scelta della Fiat di concedere subito un aumento di 30 euro ai propri dipendenti. Questa scelta, imitata da Riello e, almeno a parole, dalle piccole imprese lombarde, sembra più un escamotage per chiudere più in fretta il contratto nazionale, piuttosto che una svolta decisa verso il secondo livello della contrattazione, quello che dovrebbe avere luogo a livello aziendale. La Fiat ha, infatti, appena chiuso il contratto integrativo. Inoltre, gli incrementi salariali legati all’andamento della produttività dovrebbero entrare a regime anziché rappresentare un gesto una tantum compiuto a sorpresa dopo aver visto i risultati dell’azienda e prima di uno sciopero dei metalmeccanici. Legare i salari alla produttività serve soprattutto se il rapporto fra remunerazione e risultati dell’azienda è ben definito e presente a tutti i lavoratori ben prima che i risultati del loro lavoro si materializzino. Solo così il premio servirà a migliorare la produttività. Altrimenti si rischia di commettere lo stesso errore dei contratti dei pubblici dipendenti, che concedono premi di produttività a posteriori a tutti, anche a chi ha arrecato col suo operato danni al proprio datore di lavoro. Ma le aziende private che oggi hanno unilateralmente deciso di rimpinguare le buste paga, a differenza delle amministrazioni pubbliche, sono riuscite a ristrutturarsi e a tornare a essere efficienti. Dall’alto di questi risultati potrebbero oggi guidare una vera riforma della contrattazione che permetta di condividere coi lavoratori questi risultati. Non c’è per questo bisogno di aspettare i tempi della politica, che oggi offre scenari poco promettenti, tra la prospettiva di avere un governo zoppo oppure di tornare in tempi brevi a votare, probabilmente ancora con una legge elettorale che impedisce la selezione della classe politica ed è fonte di instabilità. Per fortuna, questa è la vera e forse unica buona notizia, ci sono cose importanti che possono essere fatte anche senza la politica per far uscire il paese dal declino.

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