L’Europa alla guerra del Renminbi

La Cina avrebbe molto da guadagnare da una rivalutazione della sua moneta perché finirebbe per favorire una crescita più equilibrata. Ma una terapia d’urto non rientra nella strategia del paese e d’altra parte la lobby degli esportatori è molto influente. Dagli Stati Uniti arriva uno scenario ad alto rischio, soprattutto perché punta al coinvolgimento nella disputa delle organizzazioni internazionali. E per permettere a queste di svolgere il loro ruolo di arbitri legittimi, gli europei dovrebbero cedere seggi e voti a beneficio delle nuove potenze [di Jean Pisani-Ferry, www.lavoce.info].

 


Si acuisce la controversia monetaria tra Cina e G7. L’8 ottobre i ministri delle Finanze della zona euro si sono praticamente allineati sulla posizione americana, annunciando l’invio di una missione a Pechino per sollecitare una rivalutazione del renminbi. Il 19 ottobre, il Gruppo dei 7 ha puntato il dito contro la Cina, sottolineando che deve “mettere in atto una veloce rivalutazione del suo tasso di cambio reale”. Nel frattempo, al Congresso americano sono state presentate e discusse almeno tre proposte di legge. Se venissero adottate, permetterebbero all’amministrazione americana di essere più aggressiva, di coinvolgere nella sua offensiva il Fondo monetario internazionale e di intraprendere un’azione contro la Cina in sede di Organizzazione mondiale del lavoro.

I perché di una controversia

È la prima volta, dall’epoca del conflitto sul tasso di cambio dello yen, all’inizio degli anni Ottanta, che una controversia monetaria assume una tale intensità. Ed è anche la prima volta che le potenze tradizionali (Stati Uniti ed Europa) uniscono le loro forze nel conflitto economico contro una potenza emergente, in questo caso la Cina.

Ciò solleva quattro interrogativi: il renminbi (Rmb) è sottovalutato? E ciò è importante? È possibile intraprendere quest’offensiva monetaria? È auspicabile che l’Europa vi partecipi?

Il primo punto sembra ovvio. In base a tutti i ragionevoli standard, la moneta cinese appare largamente sottovalutata. Malgrado una crescita superiore al 10 per cento all’anno, si prevede che le eccedenze estere raggiungano, nel 2007, il 12 per cento del Pil, mentre le riserve di cambio sono aumentate di più di mille miliardi di dollari in meno di cinque anni. Non sorprende dunque che quasi tutti gli studi disponibili sostengano che il Rmb è fortemente sottovalutato, almeno del 20 per cento. Il governo cinese non contesta la necessità di una rivalutazione e ha introdotto nel 2005 un nuovo regime di tasso di cambio, che comporta una certa dose di flessibilità. Ma la rivalutazione del renminbi nei confronti del dollaro procede a passo di lumaca, mentre la moneta americana, dal canto suo, si svaluta. Nel complesso, da che è stato introdotto il nuovo regime, il Rmb si è rivalutato solo del 3-5 per cento (secondo gli indici) nei confronti di tutte le altre le monete. Sembra che non sia neanche diminuita la differenza tra il suo valore corrente e il suo valore d’equilibrio.

Il secondo interrogativo è più complesso. I membri del Congresso americano, in cerca di rapide soluzioni, richiedono una rivalutazione del Rmb, per eliminare la minaccia rappresentata dai bassi salari cinesi e per salvare, allo stesso tempo, l’occupazione negli Stati Uniti. Ma i costi cinesi sono soprattutto riconducibili al basso livello di sviluppo del paese e alla inesauribile disponibilità di milioni di contadini poveri e sotto-pagati, pronti a emigrare verso le città per trovare un lavoro che assicuri un salario superiore al semplice livello di sussistenza. Sotto questo profilo, la Cina illustra perfettamente quanto descritto dal premio Nobel Arthur Lewis, quando parla di sviluppo basato su una manodopera illimitata. Cosa cambierebbe, allora, una rivalutazione della moneta cinese? Un simile squilibrio potrebbe forse essere risolto da un diverso tasso di cambio? E, nel caso, quest’ultimo non provocherebbe solo un’ulteriore diminuzione dei salari?

La risposta è che ciò dipende unicamente dalle politiche che potrebbero accompagnare la rivalutazione. Dal momento in cui Deng Xiaoping decise, negli anni Ottanta, di aprire il paese agli investimenti stranieri, l’economia cinese ha sviluppato una panoplia di distorsioni in favore delle esportazioni, dal sistema fiscale discriminatorio all’accesso ai finanziamenti. La sottovalutazione dei tassi di cambio è solo una tra le tante. Una rivalutazione significativa – diciamo tra il 10 e il 15 per cento – causerebbe una minor domanda di esportazioni e ci vorrebbe del tempo per assorbire il colpo, anche in un regime economico flessibile. Ciò spingerebbe il governo a sopprimere le norme che ostacolano lo sviluppo dei servizi e a sostenere la domanda interna, per mezzo di una politica di bilancio e di nuove misure di previdenza sociale, il che contribuirebbe alla lunga a ridurre il surplus esterno. Una rivalutazione non cancellerebbe quindi i lavoratori cinesi dalla carta del commercio mondiale, ma – sempre che sia sufficientemente ampia – agirebbe solo da detonatore e favorirebbe una crescita più equilibrata. Alla fin fine, tutto ciò gioverebbe solo alla Cina.

Dagli Usa uno scenario ad alto rischio

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno quindi ragione su un punto. Ma finora non hanno ottenuto risultati positivi e la diplomazia finanziaria del megafono non ha alcuna garanzia di successo. I cinesi sono scettici perché una terapia d’urto non rientra nella loro abituale strategia (ne hanno già avuta abbastanza in passato) e perché la lobby degli esportatori è molto influente. La pressione cresce e c’è il rischio che, in occasione delle elezioni presidenziali americane, si diffonda una sorta di retorica guerresca. Le proposte presentate al Congresso prevedono uno scenario ad alto rischio, perché presuppongono il coinvolgimento del Fmi, che però è avversato dai paesi emergenti, in particolare quelli asiatici, che ne diffidano. Vorrebbe dire spezzare un tabù mantenuto dal lontano 1944, quello del legame tra moneta e commercio, il che significherebbe avventurarsi in un territorio inesplorato. E per di più bisognerebbe farlo in un momento in cui il Wto non riesce neanche a condurre in porto gli accordi commerciali multilaterali del Doha Round. In altri termini, ciò che preoccupa, nell’eventuale insorgere di un conflitto monetario, è il fatto che il sistema multilaterale non possiede, al momento attuale, la legittimità e la forza necessarie a fungere da arbitro tra le potenze economiche, sempre che le abbia mai possedute.

La posizione degli europei

Che faranno in questo marasma gli europei? In effetti, non hanno tante scelte. Contrariamente a ciò che si crede, il tasso di cambio cinese è altrettanto importante per loro che per gli americani. Per di più, corrono il rischio di vedere la loro moneta svolgere il ruolo di variabile d’aggiustamento in seno al riequilibrio dei cambi mondiali. Non possono quindi permettersi di restare a guardare. Possono sì tentare di mettere in atto una loro tattica nei confronti del Rmb, ma non esiste fondamentalmente nessun motivo perché assumano una posizione radicalmente diversa da quella degli americani. Possono comunque provare a farsi sentire, almeno per quanto riguarda il ruolo delle organizzazioni internazionali, perché hanno tutto l’interesse a proteggerle. Il che non significa volerle tenere al di fuori dal conflitto, ma piuttosto assicurarsi che siano in grado di fungere da mediatrici e da arbitri legittimi. Ciò vuol dire riconoscere che gli europei devono cedere una parte dei loro seggi e voti, in seno al Fmi, a beneficio della Cina e di altre nuove potenze. L’emergenza di eventuali conflitti monetari ci ricorda l’utilità del Fmi, ma anche la necessità che al suo interno siano equamente rappresentati tutti i paesi.

 * Testo francese disponibile su www.telos.eu.com. Traduzione dal francese di Daniela Crocco

 

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