Globalizzazione: cade un mito

Una recente inchiesta del Financial Times dimostra che una larga maggioranza degli Stati Uniti e dei principali paesi dell’Unione Europea rifiuta la “globalizzazione”, crede che non abbia portato a niente di positivo, risparmia i ricchi da tasse più alte e non stabilisce un “tetto” per i salari da capogiro dei manager delle multinazionali [Angel Guerra Cabrera]. 

“L’idea che il libero mercato sia di vantaggio per i paesi poveri e quelli ricchi in ugual misura non è condivisa dai cittadini dei paesi ricchi”, commenta il giornale basandosi sui risultati di un sondaggio che in Europa ha riguardato Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna.

Una inchiesta simile sarebbe risultata inutile nei paesi poveri dove si registra un crescente rifiuto della globalizzazione negli ultimi venti anni. Specialmente in America Latina, dove le proteste sono sia a livello locale e settoriale che nazionale con rivolte in strada e anche attraverso le elezioni.

Ma cosa si intende precisamente per globalizzazione? La risposta dipende dal punto di vista di chi la offre. C’è la versione dei potenti, già non tanto addolcita come nei primi tempi, sebbene ora più ambigua, e quella alternativa, basata nell’interesse dei popoli e la lettura obiettiva della realtà sociale. Cercherò di riassumere l’ultima visto che la prima

è ampiamente conosciuta e trova ampia diffusione nei media.

La cosiddetta globalizzazione neoliberale, non è una fase inevitabile e fatale del progresso che opera ciecamente. È una politica delle potenze imperialiste capeggiate dagli Stati Uniti, il cui inizio si individua storicamente a partire dall’ ingloriosa caduta del socialismo sovietico, che punta all’estrema conseguenza del capitalismo mondiale, cominciata a partire dal secolo XV.

In seguito a questa caduta il mondo sembrò essere condannato alla volontà di esproprio, dominazione e guerra di una sola potenza, si sono avute enormi defezioni nella sinistra comunista o radicale e una grande confusione ideologica, che ha permesso  all’imperialismo di scatenare un’offensiva planetaria per il raggiungimento di grandi vantaggi: la fine della sovranità nazionale dei paesi poveri, il furto stile colonialismo delle sue risorse e l’emarginazione e impoverimento accelerati di centinaia di milioni di lavoratori, indigeni, disoccupati e delle loro famiglie sia nelle città che nelle regioni più povere. Gli imperialisti e i loro soci a livello locale si sentirono liberi di mettere in pratica mezzi che già avevano fatto danni molto tempo prima nel proprio sistema capitalista a caus delle sue esplosive conseguenze sociali e politiche. Furono eliminati diritti conquistati a forza di grandi lotte di lavoratori e cominciò lo sfruttamento dell’ambiente.

Il progetto fu concepito utilizzando di strumenti vecchi e nuovi tra cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, il neonato Accordo di Washington, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Pentagono, la CIA, la NATO, il sistema scolastico a tutti i livelli e i mezzi di comunicazione di massa, sempre più centralizzati e influenzati

negli ultimi tempi dal capitalismo. Ha prodotto regressive trasformazioni economiche, ideologiche, politiche, sociali, culturali le famose “riforme” sostenute da una crescente militarizzazione e la criminalizzazione dell’atteggiamento critico e di protesta sociale.

Si diffusero i miti dell’inefficacia dello Stato e la necessità del suo ridimensionamento, l’utilità delle privatizzazioni e la “deregolamentazione” delle attività economiche, ipoteticamente da devolvere al benessere generale. In effetti gli Stati si

ridimensionarono, ma solo per eliminare la sua funzione di ridistribuire le ricchezze visto che come mai prima crebbero gli apparati militari e repressivi allo scopo di schiavizzare l’umanità. La cosa più reazionaria del “pacchetto” neoliberale è che è mancato il suffragio popolare, l’azione più antidemocratica degli Stati imperialisti. L’attentato terrorista dell’11 Settembre è stato strumentalizzato per giustificare guerre genocide di conquista in Afghanistan, Iraq e Libano, il cui

clamore ha accelerato l’evidenza incontrovertibile della sua inevitabilità.

EL GRANO DE ARENA n 408 6 agosto 2007

(Traduzione di Genoveffa Corbo per Attac Italia)

 

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