Crisi dei subprime: cosa non funziona

Gli attori del mercato finanziario hanno approfittato della creazione di barcollanti strumenti di debito ma non pagheranno il grosso del costo della crisi e le perdite ricadranno sulle spalle degli investitori finali. Vanno corrette tre cose: le stime del credito, valutazioni della negoziabilita’ degli asset e la trasparenza nel mercato al dettaglio delle attivita’ finanziarie [Marco Onado, www.lavoce.info].

 


Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni. L’Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.

L’Economist ha ragione?

C’è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom. Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:

1) L’enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo. Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale(1). L’ammontare nazionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent’anni fa.

2) Lo storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario). Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi.

3) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari). A livello mondiale (e nell’Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 per cento del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.

4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale. Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 per cento e in Europa del 35 per cento, in Nord America è del 26 per cento, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.

Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione finanziaria degli ultimi decenni: in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strtumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.

Dove sta il rischio

Questi strumenti sono stati comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti. Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento “arm-length” è il più efficiente per collocare le risorse. Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema “con cui una persona che non può pagare trova un’altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare”.

In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non sanno dove sta il rischio. Lo testimonia questa dichiarazione nel giugno 2007 nella Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali (p. 167): ” Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo.”. Onesto, ma assai preoccupante.

Chi ci perde?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati. In altre parole, la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati.

L’allocazione del finanziamento

L’efficienza allocativa del finanziamento “arm-length” merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre.

Primo, ancora una volta, è emerso un problema di rating. Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la fragmentazione delle responsabilità conduce a ciò che L’Economist ha definito come “troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone”. Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.

Secondo, i titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d’investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive. La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un’illusione. Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.

Terzo, c’è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato. Ci sono due reazioni ipocrite che emergono: chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria. La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un’annata molto recente). La seconda strada è perfino più assurda (come ci si poteva aspettare subito sostenuta dal Presidente Bush) poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti. La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l’opacità.

Non solo maggior educazione finanziaria

E’ arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali. Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all’ultimo anello della “magia” della creazione del credito.

(1) IMF, Global Financial Stability Report, Aprile 2007.

* Il testo inglese e integrale dell’articolo è disponibile su www.voxeu.com.

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