La crisi argentina: un caso da manuale

Il paesaggio sociale che l'Argentina sta mostrando da dicembre sfida qualsiasi capacità di previsione sia di noi argentini che degli osservatori stranieri. In primo luogo, un esercito di poveri che fino ad ora si era dedicato a consumare strade, manifestando per rivendicare sussidi statali, si è lanciato, da un giorno all'altro, in violenti saccheggi di negozi. Poi, una classe media sempre più convinta di non avere nulla da perdere (con i suoi risparmi virtualmente confiscati, colpita dalla disoccupazione e costretta ad abbandonare le sue abitudini di consumo) è arrivata alla sfida estrema di ignorare lo stato d'assedio ordinato da un governo moribondo; e ha continuato a far rintronare con le sue casseruole le notti di quest'ardente estate australe. [Articolo scritto da Dolores Valle nel Febbraio 2001]


Non si vedeva qualcosa di simile da 15 anni, quando questi stessi ceti medi urbani erano scesi in piazza per difendere una democrazia appena nata dalla minaccia di un nuovo colpo di stato militare.
«Se si azzardano, gli bruciamo le caserme», gridavano allora i manifestanti. E, ora, il clamore è più persistente e assordante, ma il nemico ha un profilo più incerto e multiforme: le banche, che hanno incamerato i soldi degli argentini, le grandi società straniere, che si sono arricchite con le privatizzazioni delle imprese pubbliche, una Corte suprema ripetutamente manipolata dal potere, e una classe politica che si percepisce come corrotta ed incapace.
Dopo aver conquistato il record di quattro cambi della guardia alla Presidenza in quindici giorni, gli argentini cominciano a chiedersi se l'attuale governo peronista di Eduardo Duhalde sia l'unica alternativa al proverbiale diluvio.
Per quanto riguarda il governo dell'economia, il dilemma non è meno drammatico. Lo scorso anno 20.000 milioni di dollari (una cifra equivalente alla metà del bilancio dello Stato) fuggirono dalle banche, per non tornarci più. Se si fosse lasciato che l'infuriata classe media prelevasse il suo denaro, la bancarotta del sistema sarebbe stata inevitabile. Ma, se si mantiene chiusa questa valvola, si impedirà che arrivi ossigeno all'economia, ormai estremamente debilitata, e il collasso finirebbe con il trascinare con sé, in ogni caso, il sistema finanziario e lo stesso paese.
Gli analisti economici convergono nel dichiarare che è necessario iniettare il tonico, che solitamente somministra ai paesi in disgrazia il Fondo monetario internazionale, come è avvenuto per il Messico, nella recente crisi. Si ritiene che la dose necessaria non dovrebbe essere inferiore a 30.000 milioni di dollari. Ma il Fondo ha già reso chiaro che, prima di ogni intervento, vuole visionare un piano economico `attuabile', che, nel gergo di questo organismo, significa solamente un'altra modifica del sistema fiscale.
Il problema è che questa ricetta, nel pieno dell'attuale incendio, non presenta soltanto difficoltà tecniche, ma, soprattutto, politiche. Un altro taglio alla spesa pubblica provocherà nuove ondate di rivolta sociale e la crescita degli atti di indisciplina nella truppa peronista, dove ci sono dirigenti e governatori che non nascondono le proprie ambizioni e la propria rivalità con Duhalde.
Dal Cile, dove è stato a riposare con la sua giovane moglie (una ex miss Universo, nota per aver coltivato le simpatie del dittatore Augusto Pinochet), l'ex presidente Carlos Menem ha scaricato le sue pallottole avvelenate contro il nuovo governo. Si sa che i suoi servizi di `tutore' sono stati richiesti dalle società spagnole, che si sono fatte carico della gestione dei servizi pubblici. Vogliono che Menem insista nella sua campagna in favore dello scambio alla pari tra peso e dollaro, uno schema che – secondo quanto ammettono quasi tutti gli economisti – finirebbe di distruggere gli argentini, ma che offre un ultimo e agonizzante sostegno agli investimenti che sono arrivati dall'estero nel paese nel corso anni '90.
Sorpresi e assenti Il principale partito di opposizione, l'Unione civica radicale, non sa ancora se potrà sopravvivere a questa seconda conclusione catastrofica dell'esperienza di un governo presieduto da uno dei suoi uomini (il precedente presidente, Raàºl Alfonsà­n, dovette anche lui abbandonare alla svelta la nave, tra le minacce di un naufragio).
E il panorama della sinistra è desolante. Il Frepaso, socio del radicalismo nella fallimentare alleanza che ha governato fino a dicembre, deve fare i conti con la propria croce: la precoce rinuncia del suo fondatore, Carlos Chacho Alvarez, al ruolo di vice-presidente. Il gesto, che voleva essere grandioso, ha finito con l'essere interpretato come un segno di immaturità politica. Disorientato e carico di sensi di colpa, il Frepaso ha visto uno dei suoi dirigenti partecipare al governo Duhalde e un altro, il capo del governo della città di Buenos Aires, criticare il primo per essersi `compromesso' con un'amministrazione di centro-destra. Il resto dei militanti lecca le sue ferite e tace.
àˆ stata in silenzio anche la deputata Elisa Carrià³, che sembrava incarnare il nuovo sogno del progressismo. Brillante avvocatessa, con una lunga esperienza nel partito radicale, approdata più recentemente a un fervido cattolicesimo, aveva fondato una sua forza politica per far avanzare un'indagine sulla corruzione e sul riciclaggio, che prometteva di far tremare l'edificio del potere in Argentina. La sua ingenuità , secondo alcuni (o il suo delirio mistico, secondo i suoi critici più impietosi) la portarono a cadere nella trappola di sottoscrivere denunce grossolanamente fabbricate. Per questo, il suo capitale politico si vide ridimensionato nelle ultime elezioni politiche; e lei non volle, o non potette, pescare nelle acque agitate della `protesta popolare'.
Della sinistra `dura e pura' sembra emergere soltanto Luis Zamora, un vecchio dirigente trockista, che ora lancia vaghe parole d'ordine di «autodeterminazione popolare» da un seggio del Parlamento. Ma Zamora almeno cammina nella moltitudine che batte le pentole, senza ricevere più di qualche occasionale insulto. Il resto dei dirigenti di sinistra resta al margine di uno scenario che, evidentemente, non era previsto nelle loro lunghe elucubrazioni.
Dove è la via d'uscita Alcuni economisti di sicuro prestigio accademico e liberi da condizionamenti nei confronti dell'establishment elaborarono, dalle loro università , un documento conosciuto come `Progetto Fenix', che da metà dello scorso anno lanciava un allarme sulla natura perversa della convertibilità dei pesos in dollari e raccomandava una politica di redistribuzione delle risorse.
Quest'ultima non è, in Argentina, una mera parola d'ordine populista, ma una necessità sempre più evidente. Ma occorre impedire che misure di questo tipo vadano a finanziare l'acquisto di dollari, con cui si squilibrerebbe il sistema di cambio e si farebbe impennare l'inflazione.
Eric Calcagno, uno degli economisti del gruppo Fenix, propone di «uscire dall'oscurantismo monetarista». La fuoruscita dalla crisi passa, secondo lui, attraverso la emissione di denaro, da distribuire ai settori meno abbienti della popolazione. I poveri non lo userebbero per speculare con il cambio, ma per acquistare generi alimentari ed altri beni elementari, che la Argentina sarebbe in grado di produrre in abbondanza.
In questo modo si creerebbe un circolo virtuoso: aumenterebbe la domanda, si rianimerebbe la produzione (senza necessità di grandi investimenti, dal momento che l'apparato industriale non utilizza gran parte della sua capacità produttiva, dopo una lunga fase di recessione), si ridurrebbe la disoccupazione e migliorerebbe il potere di acquisto della maggioranza degli argentini.
In qualche modo, tornerebbe così ad affermarsi la logica che caratterizzò il periodo dell'industrializzazione, basata sulla sostituzione dei beni di importazione, come predicavano negli anni `60 gli economisti del Cepal (Comissià³n econà³mica para la América latina, il cui protagonista più visibile era, sicuramente, l'argentino Raàºl Prebisch).
Calcagno riconosce che per finanziare questo processo non basta fare maggiori emissioni di pesos svalutati, ma che bisogna riscuotere imposte dagli unici che, a rigore, sono in grado di pagarle: le imprese private di servizi pubblici, i grandi esportatori e il settore finanziario, in particolare i fondi pensione, che sfruttano il raro privilegio di riscuotere tutti i contributi del sistema previdenziale, mentre lo Stato è chiamato a pagare tutti i pensionati.
Fine di un regime Questo presuppone niente meno che di spezzare il modello economico in vigore dal 1976. Il neo-liberalismo imperante nell'ultimo quarto di secolo portò ben presto a una forte concentrazione delle risorse, alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici, alla liberalizzazione del sistema finanziario, a un'apertura commerciale indiscriminata e ad una politica anti-inflazionistica, basata sulla sopravvalutazione della moneta locale.
Si trattò, in sostanza, di un sistema parassitario: che distrusse l'apparato produttivo alimentandosi innanzitutto con la vendita di tutte le imprese pubbliche e, successivamente, con uno sfrenato indebitamento esterno. La convertibilità , che fissò lo scambio alla pari tra il peso e il dollaro, fu la polizza di assicurazione di un cambio favorevole, che permise agli investitori stranieri di riportare la totalità dei loro profitti in dollari alle società -madri. Tra il 1993 e il 1999, le società straniere guadagnarono in Argentina 17.000 milioni di dollari americani, dei quali reinvestirono solo 5.000 milioni.
Il modello dimostrò di produrre rendite assai alte per i suoi beneficiari, ma di essere difficilmente sostenibile. Con un regime di convertibilità , la crescita economica fa aumentare le importazioni, cosa che genera un deficit esterno, che deve essere finanziato. Se la economia invece si contrae, diminuisce il valore delle imposte che vengono riscosse e, siccome lo Stato non può turare la falla con emissione di nuova moneta, è nuovamente necessario il ricorso all'indebitamento. E, dal momento che nessuno può vivere in eterno di ciò che gli prestano gli organismi finanziari e la Banca mondiale, il modello di convertibilità era destinato ad esplodere, e più presto che tardi.
L'esplosione, per la verità , arrivò troppo tardi per molte delle vittime di questo modello (i 14 milioni di argentini che vivono sotto la soglia della povertà ), ma troppo presto per la costruzione di un'alternativa. L'economista Naum Minsburg riconosce una somiglianza tra la crisi argentina e l'implosione del regime sovietico, che lasciò la Russia nelle mani di un potere mafioso, incapace di far funzionare un modello capitalistico mediamente efficiente.
Nel suo libro L'economia post-menemista, Minsburg mostra cifre eloquenti sulle trasformazioni dell'Argentina nell'ultimo secolo. Tra il 1890 e il 1944, con il modello tradizionale fondato sull'agricoltura e sull'esportazione, il prodotto lordo per abitante aumentò con un valore medio dell'1,29% l'anno. Nei tre decenni di sviluppo industriale sostenuto dallo Stato (1945-1975), l'indice si impennò al 2,10%. Durante il quarto di secolo successivo al golpe militare del 1976, la speculazione finanziaria e i modelli economici benedetti dal Fondo monetario internazionale portarono il paese alla paralisi, con una misera crescita del prodotto interno lordo dello 0,24% annuo.
Tradotti sul piano sociale, i numeri sono anch'essi chiari. Prima che iniziasse `il miracolo menemista', il 10% più ricco della popolazione argentina aveva risorse 15 volte superiori al 10% più povero. La ineguaglianza si è moltiplicata per due in questi dieci anni: ora l'élite guadagna 28 volte più dei più poveri.
La soluzione, dicono gli accademici del gruppo Fénix, non è dietro l'angolo, ma è economicamente sostenibile. Manca solo la decisione politica di metterla in movimento. E questo non è piccola cosa, per un paese che ha perduto, in modo quasi inspiegabile, le sue migliori occasioni. Come si suole dire con scetticismo, infatti, «l'Argentina ha un grande futuro alle spalle». La strada per tornare a questo futuro è ciò che la gente cerca nel fondo delle sue pentole.

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