Il capitalista ottimista

Giorgio RuffoloLa ricchezza non fa la felicitàƒ . Detta cosàƒÂ¬, sembra una sentenza della nonna. àƒË† invece ridiventato, di questi tempi, un tema molto serio di dibattito scientifico tra psicologi, sociologi e, naturalmente, economisti. Questi ultimi, in particolare, sono sotto tiro. Lo sono, in realtàƒ , da tanto tempo, e per molti versi ingiustamente. Accusati di gretto materialismo, di avere creato una scienza dell'infelicitàƒ , una “dismal science”, hanno contribuito molto di più loro a quel tanto di felicitàƒ collettiva che si puàƒÂ² realizzare su questa terra, dei romantici spiritualisti alla Thomas Carlyle [di Giorgio Ruffolo – tratto da L'Espresso del 7/10/2004]


A cominciare dagli economisti classici, convinti che la “Ricchezza delle nazioni” fosse una condizione fondamentale e al tempo stesso la migliore approssimazione disponibile a una societàƒ “felice”. Chi, nel nostro tempo, potrebbe dargli torto? Chi potrebbe affermare che le societàƒ della pietra, grezza o levigala che fosse, quelle dell'antichitàƒ , del medioevo e dell'etàƒ moderna fino quasi ai nostri giorni, prive di acqua corrente, di elettricitàƒ e di anestesia, e con vita media inferiore ai cinquant'anni, fossero più felici delle nostre?

àƒË† poi un fatto innegabile che, nei primi decenni successivi alla fine dell'ultimo massacro mondiale, una convergenza reale tra prosperitàƒ economica e benessere sociale – una formula concreta di quella che Albert Hirschman ha definito la felicitàƒ pubblica – sembrasse finalmente avviata (parliamo, ovviamente, delle societàƒ industriali avanzate, e di quelle soltanto). Ma è altrettanto innegabile che queste due grandi promesse della modernitàƒ abbiano cominciato, a partire dagli anni Settanta, a divergere. Come facciamo a dirlo? Quanto alla prima (prosperitàƒ economica), disponiamo di un indice, grossolano quanto si vuole. ma quantitativamente incontestabile, quello del Prodotto interno lordo, in quasi ininterrotta ascesa dagli anni Cinquanta a oggi: esso ci dice che la crescita economica pro capite è più che triplicata negli Stati Uniti e nei principali paesi europei, quadruplicata in Giappone. Quanto al secondo (benessere sociale), non disponiamo di un indice sintetico, ma di una serie di segni e di informazioni inoppugnabili, che riguardano gli stessi paesi e che si ricavano da una ormai ricchissima serie di inchieste, questionari, rassegne statistiche settoriali sui principali aspetti della qualitàƒ sociale: occupazione, distribuzione del reddito, ambiente, sanitàƒ , istruzione, coesione sociale, sicurezza. Quasi rutti tendenti al ristagno, e talvolta addirittura al declino (chi vuole farsene un'idea puàƒÂ² consultare in rete il sito: www.euro.nel/fssv/research/happiness).

Questa forbice che si è aperta tra ricchezza economica e benessere sociale è un colpo fatale per il pensiero economico dominante. La base stessa della sua legittimazione morale, il credo liberale nella pubblica virtù delle forze del mercato, viene a mancare clamorosamente. I sacrifici imposti in nome di quella virtù, proprio ai meno felici, diventano odiosi. Si capisce che la comunitàƒ degli economisti, giàƒ seriamente esposta dalla contestazione ecologica, non possa non affrontare questo nuovo intrigante paradosso. Si moltiplicano le occasioni: come negli Stati Uniti, in una sessione dell'American Economic Association, due anni fa; come a Milano, in una conferenza promossa dall'Universitàƒ della Bicocca, nel marzo dell'anno scorso. In queste occasioni, e in altre, è emerso il cuore del paradosso. Il pilastro dell'apparato teorico dominante del pensiero liberista è il principio della “Sovranitàƒ del consumatore”. La domanda di consumi e di investimenti che si genera nel mercato, secondo quella scuola, riflette fedelmente le preferenze dei consumatori. Ma se questo principio è vero, ed è vera la dissociazione tra gli esiti economici e quelli sociali, dovremmo dedurne un comportamento irrazionale e autolesionista dei sovrani. Quel principio, in realtàƒ , è stato, giàƒ nel passato, fortemente ed efficacemente contestato da economisti eterodossi, come Thorstein Veblen e come John K. Galbraith. I quali ci hanno spiegato che, se si abbandonano i paradisi teorici della concorrenza perfetta e si affrontano le asprezze del capitalismo reale, ciàƒÂ² che emerge non è la sovranitàƒ dei miliardi di consumatori, ma il pugno visibile di pochi produttori, delle grandi imprese che menano la danza, con la loro immensa potenza persuasiva e orientativa delle “scelte” dei consumatori.

Un altro grande contributo, che ci aiuta a smascherare il paradosso, è quello di economisti come John M. Keynes, sir Roy F. Harrod e soprattutto Fred Hirsch, che hanno distinto due fondamentali categorie di beni: quelli democratici e quelli oligarchici, cosi li chiama Harrod. I primi (democratici) riflettono effettivamente i bisogni autentici, primari di tutti i consumatori: di nutrirsi, di coprirsi, di difendersi, eccetera. Sono, per ciascun consumatore, indipendenti dal comportamento degli altri, e si possono quindi sommare. Il pasto che consumo riguarda proprio me, e solo me, nessuno puàƒÂ² interferire (se si prescinde dal cameriere); e sono “saziabili”. Gli altri, quelli oligarchici, mirano a soddisfare non bisogni autentici, ma aspirazioni di status, di posizione (Hirsch li chiama, con parola orribile, “posizionali”). Per ciascun consumatore, sono interdipendenti rispetto a quelli degli altri consumatori: la falciatrice automatica non serve realmente a tenere in ordine il praticello, l'auto nuova a prestazioni più brillanti; ma, come si diceva in America, a non perdere la faccia col vicino: “To keep up with the Jones”. Sono disponibili soltanto a gruppi limitati o a singoli consumatori. Sono scarsi per definizione, fisicamente (un quadro di Rembrandt) o socialmente (la presidenza del Consiglio, o quella del Milan). Non sono saziabili (l'invidia non lo è mai), ma sono deteriorabili, quando l'accesso al loro godimento si apre a troppi pretendenti (per esempio, piazza San Marco a un concerto rock). In quest'ultimo caso si deve ricorrere a misure di esclusione: alzando i prezzi o razionando l'offerta. Sono, per loro natura, ingannevoli. Come l'alzarsi in piedi per veder meglio, se tutti lo fanno. Oppure credere veramente di avere un bastone di maresciallo nello zaino, come diceva Napoleone ai suoi soldati.

Insomma, non si possono sommare, ma si elidono gli uni con gli altri; gli uni possono goderne solo se altri sono esclusi. Ed ecco qui messa a nudo una ragione di infelicitàƒ consumistica: di frustrazione. Una variante particolarmente paradossale di questo fenomeno è quella dei prodotti che risparmiano tempo: come forni a microonde, lavatrici eccetera. àƒË† anche su questi che Keynes contava, quando profetizzava che le nuove generazioni avrebbero potuto godere di un vasto tempo libero, da usare “fuori del mercato”: per leggere, per fare l'amore, o la pennichella, o – che Dio ne liberi – per pensare. Ma che cosa succede se invece si usa il tempo liberato per acquistare nuovi oggetti che ne consumano? Succede che si rinnova la scarsitàƒ , e la frustrazione che ne deriva. Ora possiamo capire perchàƒÂ© l'infelicitàƒ della frustrazione si accompagna cosi armoniosamente con l'abbondanza dei consumi: perchàƒÂ© le forze della produzione, le imprese, lanciano continuamente sul mercato nuovi beni che competono tra loro nell'occupare il tempo e lo spazio dei consumatori.  I quali non varcano mai la soglia del tempo libero, come gli invitati del ricevimento di Luis Bunuel, nell”'Angelo sterminatore”, non varcano mai la soglia benchàƒÂ© sia làƒ , spalancata. Il mercato, fatalmente, li ricattura.

Ora, il mercato è un meccanismo meraviglioso di gestione, quando si tratta di combinare tra loro scelte indipendenti tra loro. Lo è molto meno, o non lo è affatto, quando si tratta di gestire scelte interdipendenti. Il solo modo di gestire efficacemente queste ultime non è quello di affidarle alla mano invisibile del mercato, ma di regolarle attraverso un accordo esplicito.

Adesso possiamo capire dove stanno le radici del paradosso del divorzio tra ricchezza e felicitàƒ nelle societàƒ cosiddette avanzate. La formidabile capacitàƒ produttiva di cui esse dispongono non è usata nel senso della liberazione dai vincoli della scarsitàƒ , ma nel senso opposto, di crearne di nuovi. Di ristabilire nuove scarsitàƒ . Non fisiche, ma sociali. Il solo modo di sfuggire a questa nemesi del mercato è quello di trasferire la sua ricchezza fuori del mercato. Non nella gara competitiva e autodistruttiva dei beni oligarchici e posizionali, ma nell'apertura di nuovi spazi: quelli dei beni culturali e cooperativi, non soggetti a vincoli di scarsitàƒ . CiàƒÂ² comporta, scandalosamente, una strategia di demercatizzazione. àƒË† possibile – questa è l'utopia concreta che si prospetta a una societàƒ post-mercatistica – una espansione dell'economia non economica, la sola che possa uscire dalla trappola dell'angelo sterminatore.
Il mercato non è la fine, e non è il fine della storia. La sua stessa storia dovrebbe ricordarci che le istituzioni umane seguono una traccia, un percorso vitale. Nata fuori delle mura della societàƒ civile, nelle societàƒ dell'antichitàƒ e del medioevo che ne diffidavano profondamente, l'economia di mercato è entrata nelle mura della cittàƒ , conquistandola gradualmente. E alla fine, nel nostro tempo, ha cominciato a distruggerle. E proprio nello stesso tempo si stanno costituendo le condizioni di una economia della gratuitàƒ e della reciprocitàƒ , che emerge dal grande mare del mercato. Scorgerne le sue piccole isole, seguirne le vicende, prospettarne le potenzialitàƒ : questo puàƒÂ² essere un modo più intelligente e costruttivo del nostro di vivere il presente come storia.

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