Verso le reti di economia solidale

Unà¢â‚¬â„¢economia alternativa è davvero possibile? La risposta è sàƒÂ¬. Sandra Cangemi fa un viaggio nel mondo delle reti di economia solidale che si stanno affermando in molti paesi del mondo, inclusa là¢â‚¬â„¢Italia. Come funzionano? Come si puàƒÂ² farne parte? Scopritelo leggendo questo racconto di unà¢â‚¬â„¢utopia concreta.

Di Sandra Cangemi.


Donne del mondo eco-solidale

Ana ha 23 anni e vive a Fortaleza, nel povero Nordest brasiliano. Prima sopravviveva vendendo dolci e frutta per strada. Oggi ha un lavoro e persino una carta di credito. Solo che il suo lavoro e anche la sua carta di credito sono un poà¢â‚¬â„¢ speciali. Ana lavora in una cooperativa che produce pane; la cooperativa acquista la farina (biologica) da un insediamento di Sem Terra e il pane viene rivenduto a unà¢â‚¬â„¢altra cooperativa di acquisti collettivi, nello stesso bairro popolare. La carta di credito di Ana si chiama Credsol (dove “sol” sta per solidarietàƒ ) che permette di fare acquisti solo allà¢â‚¬â„¢interno del circuito dellà¢â‚¬â„¢economia solidale ed è riservata alla popolazione a basso reddito.

Rosario è argentina e vive alla periferia di Buenos Aires. Lavora in una piccola fabbrica di sapone che è stata abbandonata dai proprietari due anni fa, allà¢â‚¬â„¢epoca della grande crisi, e attualmente è gestita dagli operai, che sono riusciti a trovare credito presso una banca popolare e rivendono parte della loro produzione a gruppi di consumo solidale. Non solo: parte di quello che le serve per vivere se lo procura tramite un “club del trueque”, club del baratto. Lei porta i suoi ortaggi, le sue marmellate, le sue torte e i suoi maglioni e in cambio prende formaggio, scarpe, miele o qualunque altra cosa le serva.

Myra, 40 anni, vive in un villaggio del Tamil Nadu, in India. Eà¢â‚¬â„¢ un villaggio che ha adottato i metodi dellà¢â‚¬â„¢Assefa, una organizzazione non governativa che applica i principi gandhiani: economia comunitaria, autosufficienza di villaggio, benessere per tutti. Là¢â‚¬â„¢attivitàƒ principale del villaggio è la produzione di capi di cotone, a ciclo chiuso: il cotone viene coltivato, raccolto, trasformato in teli e poi in camicie, vestiti, tovaglie, lenzuola, che vengono acquistati da altri villaggi seguiti da Assefa e dai negozi kadhi, una sorta di circuito di botteghe solidali che vendono prodotti locali. Ma buona parte delle esigenze di Myra e della sua famiglia vengono soddisfatte dalla produzione del piccolo orto, delle cinque galline e delle due capre di loro proprietàƒ . Oltre a occuparsi della casa, dei figli, dellà¢â‚¬â„¢orto e degli animali, Myra contribuisce in vario modo ai bisogni della comunitàƒ : tesse il cotone, fa la maestra nella piccola scuola elementare e fa parte del Consiglio delle donne del villaggio. In cambio, riceve dalla collettivitàƒ un reddito sufficiente a coprire tutti i suoi bisogni fondamentali.

Silvia, 35 anni, abita a Milano. Lavora in una bottega del commercio equo, fa parte di un Gas (gruppo di acquisto solidale), ha il conto corrente (molto esile…) in Banca Etica e quando, di rado, puàƒÂ² permettersi un viaggio sceglie quelli organizzati dalla cooperativa di commercio equo per cui lavora insieme a unà¢â‚¬â„¢agenzia di turismo responsabile. Fa anche parte di una banca del tempo, i cui membri si scambiano servizi usando come unitàƒ di misura il tempo e non il denaro: dato che il suo stipendio è piuttosto ridotto, se ha bisogno di una piccola riparazione in casa o di una baby sitter si rivolge a un altro membro della banca, e lei dal canto suo fornisce un numero equivalente di ore in lezioni di spagnolo, cura di cani e gatti e produzione di focacce e torte salate.

Là¢â‚¬â„¢homo oeconomicous esiste davvero?

Che cosa hanno in comune Ana, Rosario, Myra e Silvia? Tutte e quattro fanno parte di circuiti di economia solidale. Una realtàƒ , non unà¢â‚¬â„¢utopia, che si sta sperimentando in molte parti del mondo. E una realtàƒ in crescita, che contraddice in pieno i sacri dogmi dellà¢â‚¬â„¢economia liberista: in particolare la teoria dellà¢â‚¬â„¢homo oeconomicus, quel soggetto avido ed egoista tanto amato dagli economisti che pensa solo a massimizzare il proprio interesse individuale. Non si sa per quale strano miracolo, la somma dei comportamenti di questi esseri ridicoli (ma sommamente “razionali”, stando ai valori delle teorie economiche convenzionali) che ricercano esclusivamente il proprio utile dovrebbe avere come risultato un equilibrio ideale che garantisce a tutti i membri della societàƒ il massimo del benessere.

La realtàƒ , come ben sappiamo, è molto diversa. Solo per fare qualche esempio: il “consumatore razionale” teorizzato dagli economisti utilitaristi non esiste, come del resto risulta lampante analizzando anche sommariamente i meccanismi della comunicazione pubblicitaria, che per indurci allà¢â‚¬â„¢acquisto dei prodotti fanno leva quasi sempre su motivazioni emotive, irrazionali e spesso inconsapevoli. Per non parlare dellà¢â‚¬â„¢irrazionalitàƒ totale dei comportamenti della borsa e della ormai incontrollata corsa alla finanziarizzazione dellà¢â‚¬â„¢economia, altrettanto demenziale e capace di produrre solo disastri. Lo strumento principale utilizzato per misurare la crescita economica, il Pil (Prodotto Interno Lordo), è talmente assurdo e contraddittorio che probabilmente le generazioni future rideranno di noi, quando ne leggeranno sui libri di storia, domandandosi come abbiamo potuto ricorrere per decenni, per valutare il benessere, a un parametro che si basa solo sul denaro speso (o guadagnato) senza distinguere se è servito a comprare armi o a costruire scuole; un parametro che aumenta se crescono gli incidenti stradali o i casi di cancro o se si fa una guerra, che non valuta minimamente là¢â‚¬â„¢economia non monetaria (dallà¢â‚¬â„¢allattamento al seno alle cure fornite dalla famiglia al volontariato) fondamentale per il benessere reale delle persone; un parametro che rimane cieco a un elemento fondamentale come là¢â‚¬â„¢uso (e lo spreco) delle risorse naturali e della produzione di scorie e che non sa misurare come viene realmente distribuita la “ricchezza” prodotta.

Là¢â‚¬â„¢egosimo, la competizione e lo sviluppo

Eà¢â‚¬â„¢ sotto gli occhi di tutti che il modello economico liberista tutto fa fuorchàƒÂ© aumentare in modo omogeneo il benessere collettivo; al contrario, allarga a dismisura le disuguaglianze tra i paesi e tra le classi sociali, aumenta la povertàƒ e là¢â‚¬â„¢esclusione, distrugge i diritti umani, svuota la democrazia, rende precario il lavoro, ci sta portando verso il disastro ambientale. Lo stesso concetto di sviluppo è entrato in crisi. PerchàƒÂ© se sviluppo corrisponde semplicemente a crescita, e in particolare crescita dei consumi, cioè alla diffusione a tutto il mondo degli standard di vita occidentali, è ormai evidente che si tratta di una sporca (e interessata) bugia: il pianeta non puàƒÂ² reggere unà¢â‚¬â„¢espansione illimitata del consumo di risorse ed energia e della produzione di rifiuti. Giàƒ noi occidentali da soli, il 20 per cento ricco della popolazione mondiale, consumiamo da soli più risorse di quanto la terra sia in grado di rinnovare. La nostra arroganza “senza limite” si scontra con i confini precisi del mondo dove abitiamo, là¢â‚¬â„¢unico che abbiamo a disposizione.
Non solo non è vero che là¢â‚¬â„¢individualismo egoista e concorrenziale ci porta al massimo vantaggio possibile per la collettivitàƒ , come teorizzano i neoliberisti. Non è vero neppure che là¢â‚¬â„¢essere umano sia essenzialmente un essere egoista, individualista e competitivo. Là¢â‚¬â„¢esperienza comune dimostra che in genere, anche tra gli animali, la cooperazione è molto più efficace nel garantire la sopravvivenza del gruppo rispetto alla competizione; che gli esseri umani tendono naturalmente a farsi carico delle esigenze altrui, e anche in situazioni di grande povertàƒ e deprivazione si attivano meccanismi di solidarietàƒ ; che la necessitàƒ di partecipazione, di collaborazione, di relazione, di dare un senso al proprio agire e alla propria esistenza sono bisogni umani fondamentali, e proprio a questi il sistema neoliberista, che assegna un prezzo a ogni cosa ma non sa dare valore a niente, non dàƒ risposte. Un sistema che, dà¢â‚¬â„¢altra parte, lascia fuori miliardi di persone, considerate “inutili” sia come produttori che come consumatori. E proprio in queste gigantesche sacche di esclusi germogliano i semi di altre economie, basate su principi opposti a quelli capitalistici.

Solidarietàƒ , partecipazione, “ben vivere” invece di “ben avere”

Là¢â‚¬â„¢economia solidale, a ben guardare, non è davvero unà¢â‚¬â„¢idea nuova. In fondo condivide parecchi valori con varie forme di economia tradizionale. Se consideriamo là¢â‚¬â„¢organizzazione sociale di numerose popolazioni indigene dellà¢â‚¬â„¢Africa, dellà¢â‚¬â„¢America Latina e dellà¢â‚¬â„¢Asia, per esempio, vediamo che i principi ricorrenti sono sostanzialmente gli stessi. I concetti di proprietàƒ privata, di concorrenza, di crescita, di profitto, di accumulo vengono ignorati; al contrario, la condivisione e la solidarietàƒ sono le basi della convivenza sociale. La produzione è commisurata alle necessitàƒ essenziali della comunitàƒ , è fortemente ritualizzata e praticata in base a tecnologie e conoscenze tradizionali tramandate di generazione in generazione. Là¢â‚¬â„¢essere umano si considera parte integrante dellà¢â‚¬â„¢ambiente, che quindi non va nàƒÂ© “conquistato” nàƒÂ© sfruttato nàƒÂ© sottomesso. Al contrario la natura, spesso divinizzata, viene trattata con il massimo rispetto e con una serie di precauzioni per evitare di alterarne gli equilibri, perchàƒÂ© si è ben coscienti che questo comprometterebbe le basi della propria sopravvivenza e di quella delle generazioni future. La coesione sociale è un valore fondamentale da salvaguardare, e questo fa sàƒÂ¬ che la comunitàƒ si faccia carico del diritto alla vita di ciascuno dei suoi membri, compatibilmente con le risorse disponibili. Gli elementi dello scambio e del dono sono importantissimi; ognuno è consapevole che il benessere degli altri è essenziale per il proprio, e la dimensione collettiva e spirituale prevale su quella individuale e materiale. Insomma, pur senza negarne i limiti per quanto riguarda ad esempio i diritti individuali o la condizione delle donne, si direbbe che là¢â‚¬â„¢organizzazione economica dei popoli considerati “sottosviluppati” sia molto più umana, equa e saggia dellà¢â‚¬â„¢”evoluto” capitalismo occidentale. Ma anche nelle nostre societàƒ , lo sviluppo del cosiddetto terzo settore e di svariate forme di auto-organizzazione della societàƒ civile, che si aggiungono a quelli tradizionali del settore pubblico e del privato “for profit”, è un segnale preciso del bisogno di far rientrare là¢â‚¬â„¢etica nellà¢â‚¬â„¢economia. e di rispondere a domande che il neoliberismo ignora o è incapace di soddisfare.

I principi fondamentali dellà¢â‚¬â„¢economia solidale sono abbastanza semplici, ma se messi in pratica rappresenterebbero una vera e propria rivoluzione: sobrietàƒ , cooperazione e reciprocitàƒ , solidarietàƒ intesa non come beneficenza o caritàƒ cristiana ma come diritto-dovere collettivo, responsabilizzazione di ogni individuo rispetto al benessere collettivo, centralitàƒ dei diritti e del lavoro, sostenibilitàƒ ambientale, distribuzione equa delle risorse, partecipazione democratica alle scelte, tutela dei beni comuni, primato dellà¢â‚¬â„¢economia locale, conoscenza e cura del proprio territorio. Secondo Euclides Andrè Mance, filosofo brasiliano, consulente del governo Lula per il progetto “Fame zero” e collaboratore della Rete brasiliana di socioeconomia solidale, nonchàƒÂ© autore del recente La rivoluzione delle reti (Emi), il concetto cruciale è quello del “bem-vivir”, del ben-vivere, contrapposto a quel ben-avere che, nella mentalitàƒ oggi dominante, coincide con il benessere.

Ripensare radicalmente là¢â‚¬â„¢economia

Si tratta dunque di ridefinire le prioritàƒ partendo da una domanda fondamentale: a che cosa deve servire là¢â‚¬â„¢economia? “Se deve servire a distribuire il più equamente possibile risorse sempre più scarse, garantendo a ogni essere umano, oggi e nel futuro, la soddisfazione dei diritti fondamentali, nel rispetto dei limiti del pianeta, è evidente che non possiamo affidarci al mercato, i cui fallimenti sono sotto gli occhi di tutti: il sistema economico va radicalmente trasformato”, è la risposta di Francesco Gesualdi, fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo, che sullà¢â‚¬â„¢argomento ha organizzato, nellà¢â‚¬â„¢agosto scorso, un seminario di cinque giorni. “Si puàƒÂ² immaginare là¢â‚¬â„¢emergere di due economie: una pubblica, che ha il compito di garantire le risposte ai bisogni essenziali (e quindi cibo, acqua, casa, vestiti, scuola, assistenza sanitaria, energia, informazione e comunicazione, trasporti), ha la prioritàƒ nellà¢â‚¬â„¢assegnazione delle risorse, funziona sulla base del principio della solidarietàƒ e di una programmazione economica condivisa e partecipata; là¢â‚¬â„¢altra, privata e basata sul principio del libero mercato, dovrebbe occuparsi solo dei “desideri”, dei beni e servizi superflui o comunque facoltativi, ma avrebbe un ruolo subalterno e sarebbe rigidamente regolamentata in base a principi di responsabilitàƒ sociale e ambientale, attraverso un sistema fiscale e di credito (formato da banche pubbliche e gestite da comitati popolari) che incentivi i comportamenti corretti e punisca quelli scorretti. Proviamo a immaginare una societàƒ in cui là¢â‚¬â„¢obiettivo del lavoro non è più garantirci un salario, ma semplicemente soddisfare i nostri bisogni; in cui ognuno di noi non ha una sola attivitàƒ , ma tante, alcune pagate e altre no, e in cui là¢â‚¬â„¢acquisto è solo uno dei tanti modi per procurarci quel che ci serve. Ad esempio, io potrei decidere di fare da me le piccole riparazioni in casa o di produrmi la verdura o il pane, di scambiarmi servizi e macchinari con i miei vicini invece di comprarli, persino di pagare una parte delle tasse occupandomi del verde pubblico o facendo assistenza agli anziani. Un sistema del genere avrebbe il vantaggio di garantire servizi pubblici più ampi e meno costosi, di far contribuire tutti al benessere collettivo, ognuno secondo le sue inclinazioni e capacitàƒ , eliminando quel senso di inutilitàƒ e di emarginazione che colpisce tanti giovani e tanti anziani…”
 
E in Italia?

Forse non ve ne siete accorti, ma là¢â‚¬â„¢economia solidale in Italia non è una novitàƒ : nasce negli anni à¢â‚¬Ëœ80 con le Mag (le cooperative di mutua autogestione, che sono poi la prima esperienza di finanza etica) e il commercio equo e solidale, cresce negli anni à¢â‚¬â„¢90 con lo sviluppo del consumo critico, grazie soprattutto allà¢â‚¬â„¢attivitàƒ di denuncia e controinformazione del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, dei Bilanci di Giustizia e dei Gruppi di acquisto solidali, la nascita di Banca Etica, la diffusione del turismo responsabile, il radicamento del concetto di sobrietàƒ contrapposto al diktat del consumismo. Là¢â‚¬â„¢aumento dellà¢â‚¬â„¢attenzione da parte dei consumatori-cittadini è evidente: la finanza etica e il commercio equo sono in decisa crescita, si moltiplicano le “fiere” (come quella che ha avuto luogo a Volpedo, in provincia di Alessandria, dal 5 allà¢â‚¬â„¢8 settembre) e i convegni (ultimo quello che si è tenuto a Bagnoli dal 5 al 7 settembre, “Là¢â‚¬â„¢impresa di unà¢â‚¬â„¢economia diversa”). Là¢â‚¬â„¢8 novembre a Empoli nasce là¢â‚¬â„¢Associazione Rete del Nuovo Municipio, a formalizzare i frutti dellà¢â‚¬â„¢elaborazione teorica sul ruolo dei Comuni nel sostenere nuove forme di convivenza civile, partecipazione e pratica economica, ma anche di esperienze concrete di cittadinanza attiva e di democrazia partecipata. E da circa un anno, soprattutto grazie allà¢â‚¬â„¢impegno della Rete di Lilliput, si è cominciato a ragionare sulle Reti di Economia Solidale.

“Il primo passo è stato un seminario sulle strategie di rete per là¢â‚¬â„¢economia solidale a Verona nellà¢â‚¬â„¢ottobre del 2002”, spiega Andrea Saroldi, uno degli animatori dellà¢â‚¬â„¢iniziativa, “dove si è approvato là¢â‚¬â„¢avvio di un percorso di sperimentazione dei distretti di economia solidale e si è formato un gruppo di lavoro che ha elaborato la Carta per la rete italiana di economia solidale (ne abbiamo parlato nel numero di giugno, ndr)”.

Là¢â‚¬â„¢idea è semplice: mettere in rete le varie esperienze per farle crescere, dare vita a distretti locali di economia solidale per porre in contatto le diverse realtàƒ (botteghe del mondo, Mag e altre iniziative di finanza etica, agenzie di turismo responsabile, gruppi di acquisto, piccoli produttori, cooperative sociali e cosàƒÂ¬ via) e far sàƒÂ¬ che ognuna potenzi le altre, estendere il numero degli utenti interessati ad avere il “pacchetto completo”, investire le risorse allà¢â‚¬â„¢interno del circuito per allargare sempre di più là¢â‚¬â„¢offerta di beni e servizi alternativi su base il più possibile locale. Embrioni di distretti sono in gestazione a Milano, Roma, Torino, in Brianza, nelle Marche, in Toscana. E intanto si programmano altre fiere (la prossima a Roma in dicembre, unà¢â‚¬â„¢altra a Milano nella prossima primavera), si organizza la Festa dellà¢â‚¬â„¢economia solidale il 29 novembre prossimo insieme alla Giornata del Non Acquisto, si sta allestendo un sito… Insomma, unà¢â‚¬â„¢altra economia è possibile. Anzi, è giàƒ in costruzione.
 



SE VOLETE SAPERNE DI PIàƒâ„¢
La rivoluzione delle reti, di Euclides Andrè Mance (EMI)
Costruire economie solidali, di Andrea Saroldi (EMI)
Le dieci strade dellà¢â‚¬â„¢economia di solidarietàƒ , di Luis Razeto (EMI)
RBSES (Brasile) www.redesolidaria.com.br, Rio Grande do Sul www.ecosol.org.br
REAS (Spagna) www.economiasolidaria.org
Red de economia solidaria Chile (Cile) www.economiasolidaria.net
MES (Francia) www.inter-reseaux-economie-solidaire.org
Alleanza 21 www.socioeco.org
Per iscriversi alla mailing list italiana: http://liste.retelilliput.org/wws/info/res

Be the first to comment on "Verso le reti di economia solidale"

Leave a comment