I giganti dei media. Le nove multinazionali che dominano il mondo.

Uno spettro insidia il mondo: un sistema mediatico globale dominato da un numero esiguo di colossi mediatici superpotenti e per la maggioranza statunitensi. E' un sistema volto a favorire la causa del mercato globale e a promuovere i valori commerciali, denigrando quel giornalismo e quella cultura che non contribuiscono ai risultati economici immediati né agli interessi a lungo termine delle multinazionali. E' un disastro su tutti i fronti, esclusa la nozione più superficiale di democrazia: una democrazia in cui, per parafrasare una massima di John Jay, “chi possiede il mondo deve anche governarlo”.


Il sistema commerciale globale è di recente creazione. Fino agli anni '80, i media assumevano perlopiù proporzioni nazionali: da decenni si importavano libri, film, musica e format televisivi, ma la proprietà di reti e giornali era nazionale e vigevano regole ben precise. A cominciare dagli anni '80, alle pressioni del FMI, della Banca Mondiale e del governo Usa in favore della deregulation e delle privatizzazioni dei media e delle comunicazioni, si sono affiancate le nuove tecnologie satellitari e digitali, facendo emergere i colossi multinazionali del settore. In quanto tempo si è venuto a creare il sistema dei media globali? Nel 1990, le due maggiori multinazionali dei media a livello mondiale, Time Warner e Disney, hanno generato circa il 15% delle proprie entrate al di fuori degli Stati Uniti, mentre nel 1997, lo stesso dato oscillava tra il 30% e il 35%: nei prossimi dieci anni, entrambe le aziende si aspettano di realizzare la maggioranza dei loro affari all'estero. Il sistema dei media globali è ormai dominato da nove gigantesche multinazionali. Le prime cinque sono Time Warner (che ha fatturato $24 miliardi nel 1997), Disney ($22 miliardi), Bertelsmann ($15 miliardi), Viacom ($13 miliardi) e Rupert Murdoch's News Corporation ($11 miliardi). Oltre alla necessità di un mercato globale su cui competere, i colossi mediatici globali funzionano in base a due principi generali. Primo, ampliarsi sempre più per dominare i mercati e impedire alla concorrenza di acquisire il controllo delle società : basti pensare che aziende come Disney e Time Warner sono triplicate per dimensioni negli ultimi dieci anni. Secondo, avere interessi in numerose industrie dei media, ad esempio produzione cinematografica, editoria, musica, reti e canali televisivi, negozi, parchi dei divertimenti, riviste, quotidiani e così via. Per questi colossi, il totale dei profitti può rivelarsi assai più cospicuo della somma delle parti derivanti dai diversi media. Un film, ad esempio, deve generare anche una colonna sonora, un libro, un gadget e magari anche un nuovo programma televisivo, dei CD-Rom, dei videogame e dei giochi offerti all'interno di parchi tematici. Così, le aziende che non dispongono di partecipazioni diversificate nelle varie industrie dei media non hanno possibilità di competere sul mercato (…) Dietro queste multinazionali si colloca poi una seconda fascia, comprendente 35-50 aziende con un fatturato di $1-8 miliardi all'anno nel settore dei media, solitamente dotate di solide basi a livello nazionale o regionale oppure specializzate in determinate nicchie di mercato a livello globale. Circa la metà , tra cui Westinghouse CBS, New York Times Co., Hearst, Comcast e Gannett, ha sede in America del Nord; segue l'Europa, mentre pochissime hanno sede in Estremo Oriente e America Latina. In sintesi, la stragrande maggioranza (in termini di fatturato) delle produzioni cinematografiche e televisive, del possesso dei canali via cavo e dei sistemi satellitari, dell'editoria, dei periodici e della discografia è appannaggio di queste circa 50 aziende, mentre le prime nove dominano incontrastate molti di questi settori. Secondo i canoni più elementari della democrazia, tale concentrazione di potere nel campo dei media è inquietante, per non dire inaccettabile. Ma anche tutto questo non basta a spiegare quanto concentrato e privo di concorrenza sia questo potere mediatico globale. Infatti, tutte queste aziende intraprendono delle joint venture, associandosi con la “concorrenza” per determinate operazioni allo scopo di ridurre la competizione e i rischi. Ciascuno dei nove colossi appartenenti alla prima fascia, ad esempio, ha creato delle joint venture, mediamente, con due terzi degli altri otto giganti mediatici della prima fascia, mentre le aziende del secondo livello non sono certo meno aggressive quanto alla formazione di joint venture. “We are the world”. Sotto certi aspetti, questo sistema commerciale globale non rappresenta un affare totalmente negativo. Talvolta, promuove anche messaggi antirazzisti, anti-maschilisti o antiautoritari, con effetti potenzialmente costruttivi nei paesi dominati da regimi dittatoriali. Tuttavia, in generale, tale sistema è ben poco interessato al giornalismo o alla politica, a meno che non siano al servizio del mondo degli affari e delle classi più agiate; inoltre, privilegia quei pochi generi redditizi che sa fare abbastanza bene, come lo sport, l'intrattenimento e i film d'azione. Eppure, anche al meglio delle sue prestazioni, il sistema risulta completamente saturato da una sorta di ultra-commercializzazione, un vero e proprio bombardamento a tappeto commerciale che si abbatte su ogni aspetto della vita umana. Come afferma l'amministratore delegato di Westinghouse (Advertising Age, 3/ 2/ 97), «Noi siamo qui per servire i pubblicitari: è questa la nostra ragione di esistenza». L'aspetto tragico consiste invece nel fatto che il processo di concentrazione dei media a livello globale non è stato al centro di un dibattito pubblico, specialmente negli Usa, malgrado le sue chiare ripercussioni politiche e culturali. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Alleati limitarono la concentrazione dei media nella Germania e nel Giappone occupati, avendo notato che promuoveva culture politiche di stampo antidemocratico o addirittura fascista. E' forse giunto il momento che gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi assumano una dose di quella stessa medicina: ma per fare ciò, occorrono sforzi congiunti per educare ed organizzare le persone intorno alle problematiche che interessano il mondo dei media. E' questo il compito che ci attende. di Robert W. Mcchesney, traduzione di Sabrina Fusari – tratto da «Liberazione» 4 luglio 2003

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