L’ultima moda dei turisti a Rio, il «safari» nella favela


Una bella gita nella favela è proprio ciò di cui senti il bisogno oggi. Dopo una settimana in giro per Copacabana e Ipanema ti accorgi di aver visto meno miseria di quella che si vede per il centro di Milano [segnalato da Sijambo].

Sotto sotto ti senti un po’ deluso. I punti di forza del
viaggio a Rio erano due: la bellezza [spiagge, ragazze, eccetera] e la miseria generosa, violenta, spettacolare che ti mostrano sempre alla televisione come marchio carioca e che, pure, qui non hai ancora incontrato. La frustrazione aumenta quando consideri che alcune
favela sono ben visibili anche dalla spiaggia. Scendono come morene glaciali dal Morro dos Irmà£os fino ai primi quartieri residenziali di Leblon, ci arriveresti anche a piedi. Solo che ti hanno raccomandato di non entrare lì dentro. Non farlo mai, ti hanno detto. Anche la polizia si ferma al confine delle prime case. Insomma, le mulatte in bikini finiscono proprio per non interessarti più. Senza favela, la vacanza sembra decisamente incompleta.
Ed ecco che ti viene in soccorso l’efficiente macchina turistica. Ecco che ti offrono il Favela Jeep Tour. Il dépliant lo trovi alla reception di tutti gli alberghi, solo un poco meno appariscente del Pà£o de Aà§ucar. L’organizzazione si chiama Natura e Cultura perché l’
escursione comprende, oltre alla Rocinha, ovvero alla più grande favela di Rio, anche il Parco Nazionale Tijuca. Dopo il degrado degli agglomerati sottoproletari, potrai ammirare i tucani e i macachi. Il pacchetto costa 120 reais, circa 35 euro. E’ così – confidenzialmente – che mi hanno incastrato. Mi vengono a prendere per ultimo, davanti al Sol Ipanema, con una jeep scoperta dall’aria militare. La guida è una brasiliana mèchata sui quarantacinque. Mi presenta l’autista e gli altri della comitiva: una coppia di americani, una coppia molto più giovane di venezuelani e una svizzera gigantesca che vive a San Francisco. Tutta gente che è stata chiaramente visitata notte tempo dal classico misto di coscienza sociale e curiosità . Come me. Il viaggio è brevissimo. In cinque minuti, le aiuole in fiore vengono sostituite dalle carcasse di motorini, le vetrate azzurrate dei caseggiati borghesi dalle murature senza intonaco dell’edilizia abusiva. Ancora una piccola scuola privata americana, con tanto di erbetta scintillante, e poi si
entra nel fitto termitaio della favela. La Rocinha ha duecentomila abitanti. E’ la più grande e pericolosa di Rio. Qui vivono e operano i maggiori trafficanti di droga
brasiliani. La guida illustra con cura, sapendo che era questo il brivido che cercavamo, ma poi aggiunge subito che noi siamo al sicuro [ovviamente non dice che la sua
organizzazione paga una specie di immunità ai boss del posto]. E noi cominciamo il nostro zoo safari. La jeep penetra nei meandri della favela, si ferma davanti a un branco di cani colorati con le bombolette, davanti all’officina per cannibalizzare le auto rubate, davanti al magazzino condiviso di alimentari e hifi, davanti ai grovigli di cavi elettrici più pittoreschi – energia succhiata allo Stato, sì, sì, potete fotografare, dice la guida – e intanto la gente ci guarda passare annoiata. Considerando la meta della gita, abbiamo pensato tutti di vestirci da pezzenti, e adesso, di fronte a questo viavai di camicie bianchissime e acconciature accurate, diamo davvero nell’occhio. A metà della salita più impervia ci viene concesso di scendere per una breve sosta: è uno dei tre safe point pattuiti con i capi della Rocinha. C’è una bancarella con lavoretti artigianali. Le
venditrici hanno lo smalto sulle unghie e un sacco di anelli. Alcuni bambini sembrano pagati apposta per chiederti 1 real, non hanno proprio l’aria di fare l’elemosina. La svizzera si muove comunque guardinga. La coppia di americani si filma a vicenda mentre
compra manufatti. Nell’attesa, io e i due venezuelani veniamo informati dalla guida sulla rete idrica, lo smaltimento rifiuti, l’ufficio postale, la scuola, la biblioteca e le altre attività autogestite di questa città nella città . Ciò che vedo attorno a me non è certo più degradato del centro storico di Palermo. Figurarsi Caracas: i venezuelani ci staranno senz’altro pensando, hanno la delusione scritta in faccia.
In cima alla salita smontiamo di nuovo. Si sale sul tetto della casa più alta. Natura e Cultura ha affittato il terrazzino e il suo accesso. Le vecchie sedute ll’ingresso ci salutano, abituate ai visitatori stranieri [il favela tour vanta 150 jeep]. Sulle rampe di scale in cemento grezzo ci sono anche delle piante ornamentali. Da quassù la vista è magnifica: stretta tra i monti scende una colata di case basse, in mattoni, ognuna col
proprio serbatoio d’acqua sul tetto, una distesa rossa punteggiata dall’azzurro dei bidoni, giù giù, fino alle sabbie dorate di Sà£o Conrado. Duecentomila persone nutrite, istruite, protette e perfettamente amministrate dai super criminali di Comando Vermelho.
Gli americani si filmano entusiasti. La svizzera, benché viva a San Francisco, teme comunque che le vecchie vengano su col mitra spianato e ci rubino tutto. I venezuelani rimpiangono una mattinata di parapendio.
Sul penultimo tornante, ormai quasi a valle, restiamo imbottigliati nelle manovre dell’autobus 510. Davanti a una specie di rivendita di cd c’è un cartellone scritto a
pennarello in cui viene pubblicizzato il rap di Fernandinho Beira-Mar. Trattasi del più grande trafficante di Rio. Il rap, in testa alle classifiche della musica indipendente, racconta di come abbia ucciso cinque uomini della fazione rivale per poi consegnarsi alla polizia, di come diriga tutto molto meglio dalla prigione e, ovviamente, non si faccia mancare nulla. Questa è la via dei negozi, ci spiega intanto la guida, per distrarci. Qua la pescheria, lì la drogheria, più giù il pet shop . Finalmente l’autobus si disincaglia e possiamo ripartire. Ai bambini che si sono aggrappati ai paraurti della jeep la svizzera sta ora lanciando caramelle, mentre i venezuelani, per un’associazione mentale fin troppo evidente, chiedono: E il Tijuca? Quand’è che andiamo a vedere gli animali?
[di Mauro Covacich] – Corriere della Sera

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