Sanità italiana: eppure pubblico è bello!


Liste d’attesa. Sprechi. Malasanità . Ma il sistema italiano è tra i migliori del pianeta. Lo assicura l’Organizzazione mondiale della sanità . In due rapporti ormai dimenticati da tutti, in nome di una grande voglia di privato. Che ora il governo Berlusconi…

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, alle prese
con i cattivi conti dello Stato, ha richiamato le Regioni, ritenendole responsabili delle eccessive spese sanitarie. Ma è l’abbandono del sistema sanitario nazionale – in nome di sistemi regionali e a prevalenza privata –
a provocare, insieme, l’eccesso di spesa e il peggioramento dell’assistenza pubblica. «Diario» ha interpellato su questi temi Rosy Bindi, che da
ministro varò il sistema sanitario oggi smantellato dal governo Berlusconi.
E poi analizza la più diffusa delle medicine alternative che oggi vogliono il riconoscimento dello Stato: l’omeopatia.

àˆ scattato l’allarme sulla spesa sanitaria. Si spende troppo per i farmaci e le buone politiche del governo rischiano di essere messe a rischio da Regioni sprecone e cittadini che del consumo del principio attivo fanno
il loro stile di vita, complici medici dalla ricetta facile. Questa, perlomeno, è la ricostruzione che fa il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, chiedendo alla Corte dei conti di vigilare maggiormente sulla spesa sanitaria delle Regioni. Nessuno lo dice, ma una soluzione si vorrebbe trovare nella privatizzazione della sanità . O perlomeno così credono i pasdaran del liberismo, quelli per cui il pubblico è un buco nero che risucchia la ricchezza nazionale, mentre solo il privato garantisce la buona gestione delle risorse ed evita gli sprechi.
La sanità pubblica è uno dei capisaldi del patto sociale delle nazioni democratiche europee del dopoguerra. In Germania e in Francia, il centro e
le destre hanno sempre tutelato e sviluppato sistemi sanitari nazionali uguali per tutti, come anche in Gran Bretagna, almeno fino all’avvento del thatcherismo che ha gravemente penalizzato, pur non riuscendo a smantellare, il sistema sanitario pubblico di riferimento nel mondo. In Italia esiste un Servizio sanitario nazionale [Ssn], nato nel 1978 con la legge 883, che
sostituì il vecchio sistema delle mutue. C’è da chiedersi se resisterà .
Mentre la maggioranza marciava a passo di carica sulle questioni direttamente legate agli interessi privati e ai problemi con la giustizia di Berlusconi, meno diretto è stato l’approccio alle questioni sanitarie. Al
ministro, Girolamo Sirchia, è stato da subito offerto un vasto credito politico. Del resto, il nome di Sirchia ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli interlocutori della maggioranza di governo: è uno scienziato
di indiscusso valore, in grado di parlare sottovoce, argomentando le proprie ragioni senza aggredire chi la pensa diversamente da lui. Ma se si rincorre
il senso delle dichiarazioni espresse in momenti e luoghi diversi nel primo anno in cui ha svolto il ruolo di ministro della Repubblica, l’impressione che si ricava è quella che non abbia grande stima della sanità pubblica.
Nel tempo abbiamo sentito il ministro denunciare la fatiscenza degli ospedali, le lunghe liste d’attesa, i mali della burocrazia, ma mai una volta esprimere orgoglio per l’operato degli addetti alla sanità , per il
ruolo delle strutture sul territorio. Recentemente ha dichiarato, con tutta la solennità che il suo ruolo comporta, che negli ospedali pubblici «non ci
vanno volentieri neanche gli zingari»: con una frase sola è riuscito a dare un colpo al rispetto delle minoranze e un altro alle istituzioni sanitarie.
Intendiamoci, i mali nella sanità italiana non mancano: liste d’attesa vergognose, molti grandi ospedali che andrebbero abbattuti e ricostruiti. E
la maggior parte degli italiani, se interrogata, preferirebbe accedere a cliniche private e ritiene sempre più importante la garanzia di un’ assicurazione sanitaria privata. Ma è questa la verità ? No, secondo l’Oms, l
‘Organizzazione mondiale della sanità .

ITALIA: SECONDA AL MONDO. Il sistema sanitario pubblico italiano è uno dei migliori del mondo: lo ha scritto l’Oms. L’organizzazione delle Nazioni
unite studia i diversi sistemi sanitari e li confronta in un rapporto periodico. L’ultimo è il World Health Report 2000, che ha analizzato i sistemi sanitari di 191 Paesi. Giudicare un sistema sanitario non è cosa
facile. La prima cosa che bisogna chiedersi è quale sia il suo scopo, identificato nel raggiungimento di tre obiettivi principali: il miglioramento delle condizioni generali di salute, la capacità di rispondere
alla domanda legittima di salute della popolazione e la distribuzione delle risorse. I ricercatori dell’Oms hanno constatato che i sistemi sanitari in grado di rispondere a queste esigenze sono solo quelli pubblici: perché si
prefiggono l’obiettivo più ampio, cioè la copertura sanitaria uguale per tutti. Non solo: hanno anche valutato, smentendo tutti i luoghi comuni, che
la sanità italiana è seconda soltanto a quella francese nella classifica mondiale dei sistemi sanitari che meglio riescono a perseguire i tre obiettivi principali.
Due conclusioni sorprendenti. Avrebbero meritato una vasta eco, soprattutto in Italia, dove il dibattito sulla sanità [e sulla malasanità ] ricorre continuamente. Ci si sarebbe aspettati titoli in prima pagina nei
quotidiani, speciali di Porta a porta, dichiarazioni orgogliose di ministri e sottosegretari. Invece niente. In Italia le conclusioni dell’Oms sono passate sotto silenzio, mentre all’estero alimentavano il dibattito
pubblico.
Tra i pochi ad averle riportate, scrivendone su l’Unità , è Pietro Greco, condirettore della Scuola di giornalismo scientifico di Trieste, che così spiega il disinteresse sulla questione: «àˆ tutto il mondo politico
italiano, a destra come a sinistra, a essere trasversalmente attraversato da un’attrazione decisa per le supposte virtù delle privatizzazioni in campo
sanitario, come si è visto con la trasformazione in aziende delle Usl, le Unità sanitarie locali. Per buona parte della mentalità medica, poi, il pubblico è inefficiente per definizione. Ma questo nella sanità non è vero: dal punto di vista medico è provato che pubblico è meglio».
Perché un sistema sanitario pubblico, secondo l’Oms, è meglio di uno privato? E da che cosa derivano i buoni risultati italiani? Sono davvero tra
i migliori del mondo? Nella classifica dell’Oms, dietro a Francia e Italia seguono San Marino, Andorra e Malta: Paesi piccolissimi e ricchi, nei quali è più facile sviluppare un buon sistema sanitario. Per trovare altre grandi
nazioni bisogna scendere fino al quindicesimo posto della classifica, dove c ‘è la Gran Bretagna, e al venticinquesimo, dove si trova la Germania. Gli
Stati Uniti sono addirittura al trentasettesimo. Ma anche Paesi di medie dimensioni e grandi tradizioni civili restano indietro: l’Olanda è diciassettesima, la Svizzera ventesima, la Svezia ventitreesima.
Per capire questi risultati bisogna valutare i contesti in cui si inseriscono. Le mediocri performance dei Paesi nordici, dove l’ organizzazione sanitaria è molto buona, sono determinate dall’alimentazione
ricca di grassi e dalle patologie che ne derivano. Sulla Germania pesa l’ unificazione e l’eredità della difficile situazione sanitaria dell’ex Ddr,
la Germania dell’Est. La Gran Bretagna paga le conseguenze della politica
thatcheriana.
Quello che emerge con chiarezza dal rapporto Oms è che i sistemi sanitari pubblici gestiscono meglio le risorse e offrono servizi migliori.
Guardare agli Usa – dove ognuno si paga la propria assicurazione – è indicativo anche perché il ministro Tremonti non fa mistero di ispirarsi a
Ronald Reagan e a quel modello sociale. Eppure, nel campo della sanità ha prodotto pessimi risultati. L’Italia si sta avviando verso un sistema sanitario non nazionale, ma regionale, e a preponderanza privata: è il classico sistema che salvaguarda solo gli abbienti, ma è interessante vedere come non sia un bene neanche per loro.

ITALIA: TERZA PER EFFICIENZA. «I ricchi spesso vengono ‘curati’ di più, per ottenere profitto», spiega Pietro Greco. «Una recente ricerca svizzera rivela come ci sia un eccesso di medicalizzazioni nei confronti
degli abbienti, escluse due significative categorie: i medici e gli avvocati». Due categorie che, videntemente, hanno più strumenti per difendersi dalla sovrabbondanza di cure. Ed ecco il nocciolo della
questione, che riguarda il rapporto tra pubblico e privato, e il ruolo dei medici. La sanità privata è un’impresa che deve creare profitto, ma la
sanità di un Paese è una risorsa e un bene collettivo da tutelare. Non può essere affidata alle dinamiche del mercato, poiché non è una merce soggetta
alle leggi che governano la domanda e l’offerta. Questo non vuol dire escludere la presenza del settore privato, o che non si debba badare ai bilanci. Ma a patto che il sistema pubblico sia preponderante, uguale per
tutti, e su questo si basino le politiche sanitarie. Quale sanità vogliono invece costruire Berlusconi, Tremonti e Sirchia? Il passo decisivo è stato quello di abbattere alla radice la riforma Bindi, che prevedeva l’ esclusività del rapporto di lavoro per i medici che operano nelle strutture pubbliche. Così ora il medico riceve il cittadino-utente del servizio sanitario in ospedale, fa una diagnosi e prevede una terapia. A questo punto
si aprono due strade: continuare il percorso nella struttura pubblica, o andare in quella privata, se il paziente possiede le risorse economiche. Nel
privato, naturalmente, le liste d’attesa sono minori e l’accoglienza migliore. E, soprattutto, nel privato il paziente verrà seguito sempre dal luminare che lo ha incontrato nella struttura pubblica. Le analisi utili
alla prima diagnosi sono state pagate dal sistema sanitario nazionale, così come lo stipendio del medico, il quale procura così clienti per sé e per la
struttura privata in cui lavora. Di solito, poi, nella struttura privata le analisi vengono ripetute, e questa volta a carico del paziente o del sistema
sanitario nazionale, perché è meglio essere sicuri, non si sa mai.
In questo modo nel pubblico resteranno a curarsi solo i non abbienti e quelli che hanno bisogno di cure dispendiose o molto difficili, che possono essere svolte in sicurezza solo all’interno delle strutture pubbliche, per
motivi legati alle dotazioni tecniche e alla presenza contemporanea di specialisti diversi. Un errore ricorrente che si compie è quello di confondere disponibilità di medici e infermieri e ricezione alberghiera di una clinica privata con la reale qualità e il livello di sicurezza della prestazione sanitaria. Un classico esempio è quello del parto, considerata questione di routine priva di rischi. Molti preferiscono la camera singola della clinica alla realtà ospedaliera, malgrado i reparti maternità dei grandi ospedali siano molto migliorati, l’assistenza sia umana e continua e
in molte strutture le stanze siano da quattro persone con annessa nursery per un precoce e continuo contatto tra madre e figlio. Ma poiché le cliniche
non hanno specialisti e attrezzature in grado di affrontare le emergenze, quando malauguratamente dovessero sorgere delle complicazioni l’unica
soluzione sarà un’angosciata corsa in ambulanza al più vicino ospedale
pubblico.

REGIONE CHE VAI… Un altro concetto nel quale i luoghi comuni si sprecano è quello di efficienza, cioè il rapporto tra risorse investite e risultati ottenuti. Che solo il privato possa fare politiche efficienti,
mentre il pubblico tende a sprecare le risorse, è convinzione condivisa da molti medici, amministratori, economisti e commentatori italiani. Ma è proprio vero? Una ricerca svolta da specialisti dell’Oms e pubblicata nell’ agosto 2001 sul British Medical Journal si è occupata di valutare l’ efficienza dei diversi Paesi, cioè il rapporto tra soldi spesi e risultati raggiunti. In particolare è stato studiato il rapporto tra la spesa
sanitaria procapite, l’aspettativa di vita in salute e il tasso di scolarizzazione [l’educazione viene infatti considerata influente quasi quanto i parametri economici nel miglioramento delle condizioni generali di
salute di un Paese]. Risultato: l’idea che nella sanità sia il privato a essere più efficiente del pubblico ne esce a pezzi.
La sanità più efficiente del mondo è risultata essere infatti quella dell’Oman, piccolo e ricco sultanato che in pochi anni ha abbattuto la mortalità infantile dal 40 all’8 per mille. Al secondo posto si è piazzata Malta. Terza, e prima fra le grandi nazioni industrializzate, l’Italia,
seguita dalla Francia. Il nostro si rivela essere quindi il più efficiente tra i sistemi sanitari occidentali. Il risultato italiano è dovuto alla natura pubblica e nazionale del nostro sistema sanitario, che persegue alti standard sanitari e il medesimo accesso ai servizi medici su tutto il
territorio nazionale. E anche alle politiche di risanamento richieste dall’ unificazione europea e messe in atto dai governi di centrosinistra: queste
hanno costretto a fare di necessità virtù, abbassando la spesa sanitaria, ma senza incidere sulla qualità delle prestazioni erogate, aumentando quindi l’
efficienza del sistema.
«L’Italia», spiega Greco, «spende solo il 6 per cento del Pil, meno di altri Paesi europei, per avere una healt inequality molto bassa. Opposti, rispetto ai sistemi europei, i risultati degli Usa, nei quali si spendono
moltissimi soldi – il 6 per cento del Pil dal pubblico più l’8 per cento dal privato – per avere un sistema disastroso, che esclude 40 milioni di cittadini più poveri, cioè il 15-20 per cento della popolazione. àˆ il grande paradosso di quel sistema sanitario: malgrado la loro scienza medica sia sicuramente la migliore del mondo, a questa corrisponde la peggiore sanità dei Paesi industrializzati».
In che direzione, allora, si vuole portare la sanità italiana? Recenti provvedimenti indicano come si vada verso una privatizzazione sempre più spinta. La trasformazione degli Istituti di ricovero e cura a carattere
scientifico [Irccs] in fondazioni private si giustifica solo in questo modo.
Il primo sicuro effetto è che gli operatori sanitari che vi lavorano non saranno più soggetti al contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, ma a uno di tipo privato. Oltre ciò, non vi è nessuna garanzia che il privato
riesca a dare efficienza a queste strutture, che peraltro non ne hanno bisogno, perché sono già punte di diamante della sanità italiana: come il
Regina Elena di Roma o il San Matteo di Pavia, realtà costruite con investimenti pubblici di centinaia di miliardi che ora rischiano di passare ai privati, senza che si capisca bene perché.
Quello italiano è già ora un sistema basato sul pubblico in cui il privato non è affatto assente, dato che arriva a coprire il 30 per cento dell’offerta sanitaria: la percentuale più alta di tutti i sistemi europei.
Ma i signori della sanità privata, invece di accontentarsi, preparano l’ assalto alla diligenza. Eppure, i pessimi risultati di bilancio dovuti alle dissennate aperture al privato della sanità lombarda dimostrano già come
questa non risponda affatto a criteri di efficienza. Ma la Puglia, contro ogni buon senso, si appresta a seguire il modello di Roberto Formigoni, presidente ciellino della Regione Lombardia. Così anche in Puglia verranno
moltiplicati i produttori di offerta sanitaria convenzionati [cliniche, centri diagnostici, medici associati in società di servizi] che non danno alcuna garanzia di miglioramento della tutela della salute, mentre garantiscono il moltiplicarsi della spesa. àˆ qui, più che nella spesa per i
farmaci, che vanno ricercate le cause dell’aumento dei costi.
Intanto il ministro Sirchia propone condivisibili e vaghi decaloghi della buona sanità . Ma non affronta il nodo del rapporto tra politica sanitaria nazionale e Regioni. Con il rischio che il sistema sanitario
nazionale venga superato da 21 sistemi regionali, rispondenti a filosofie e criteri molto diversi tra loro: questo è già evidente nelle diverse politiche sui ripristinati ticket sulle ricette e sui Lea [i «Livelli
essenziali di assistenza»]. La situazione attuale è che un cittadino del Lazio paga diversamente da uno umbro lo stesso farmaco, un toscano e un lombardo si vedono riconosciute come essenziali delle prestazioni che sono
invece negate a un campano. E per un siciliano ci sarebbe la possibilità di pagare il ticket sul pronto soccorso se la prestazione non risultasse
realmente urgente, ma solo in teoria, perché nessun ospedale ha capito come deciderlo. Si impongono così nella pratica differenze tra i cittadini che
poggiano sulla base di esigenze di bilancio locali, considerate superiori ai diritti di cui tutti gli italiani dovrebbero godere in eguale misura.
Diritti già messi a dura prova dalle differenze esistenti tra sud e nord del Paese.
Sirchia non si oppone alle politiche sanitarie regionali, ma annuncia assieme a Silvio Berlusconi l’identificazione dei Centri di eccellenza
pubblici, che devono supplire ai deficit delle strutture regionali. Il pericolo è che lo Stato se ne accolli gli oneri, il privato le redditività .
Ma per alcuni è un progetto da perseguire. Che le cose possano funzionare facendo in modo che chi ha i soldi si paghi la sanità e agli altri ci pensi lo Stato, è un’utopia liberista che non recede neanche davanti all’evidenza.
E pensare che invece il nostro sistema sanitario nazionale, abituato com’è a tirare la cinghia, non solo già raggiunge buoni risultati, ma avrebbe anche
grandi margini di ulteriore miglioramento, se si spendesse di più e si continuassero le politiche di risanamento.

di Ettore Siniscalchi
————————————————————————

© della settimana
Via Melzo, 9 – 20129 Milano – Tel. 02 27711800 – Fax 02 204626
Internet: http://www.diario.it – Email: redazione@diario.it

————————————————————————

Be the first to comment on "Sanità italiana: eppure pubblico è bello!"

Leave a comment