La mia Africa delle donne, unica speranza contro la paura


Mentre gli uomini fanno la guerra, loro riforniscono i villaggi d’acqua e coltivano i campi. Unite, lottano per non veder più morire i propri figli [a cura di Sijambo – sijambo@libero.it – articolo del 27/12/02 sulla situazione in kenya]

NAIROBI – Avevo promesso a me stessa di non tornare in Kenya a visitare i miei amati elefanti finché le guerre distruttive non fossero finite e finché l’Aids non avesse
lasciato quei territori. Come indulgere al piacere di osservare gli ultimi animali selvatici, in un Paese che ha il venti per cento di sieropositivi? Sono anni infatti che
non andavo più in Africa. Ma l’invito a un incontro con un gruppo di donne africane [del Kenya, del Sudan e della Somalia], mi ha convinta. L’Alitalia ha cancellato i voli diretti per il Kenya e quindi bisogna fare un giro lungo: Roma-Amsterdam, o Roma-Londra e poi giù
verso Nairobi. Anni fa si arrivava in poco più di cinque ore. Oggi ce ne vogliono una dozzina, e c’è pure il rischio di perdere il bagaglio per strada come è successo a me all’andata.
Nairobi, che io ricordavo come una città pacifica ed elegante, è diventata pericolosa e sporca. Il centro della città in certe ore del giorno è infrequentabile, si rischia la
rapina: «Un coltello puntato sul collo, ti frugano rapidamente e ti portano via tutto, compresi gli spiccioli, l’orologio da polso, anche se vecchio», racconta Elio Traina, il direttore dell’Istituto italiano di Cultura che coraggiosamente sfida i pericoli per portare avanti un intenso programma di scambi culturali fra l’Italia e il Kenya. I ricchi si barricano nelle loro ville con tanto di fili spinati, muri coperti di cocci, ronda di cani e servizio armato notte e giorno. Solo i parchi con gli animali selvatici sono ancora delle oasi di pace. E’ lì che si concentra la valuta straniera. E vengono ben protetti. I turisti, appesantiti da macchine da presa e macchine fotografiche di tutte le forme, se ne vanno in giro chiusi dentro vecchie Land Rover, spiando l’arrivo di un gruppo
di leoni, di una mandria di elefanti. Gli animali non sentono l’odore degli umani – per una volta chiusi in gabbia come in uno zoo – e tranquillamente passeggiano, amoreggiano, cacciano, nella pienezza della loro intelligente e necessaria semplicità vitale. Osservare una ventina di elefanti che scende lentamente verso la riva del fiume per fare il bagno in
un tripudio di spruzzi, di barriti; spezzando rami e foglie, affondando le gigantesche zampe nel fango, è una esperienza straordinaria. La leggerezza di questi corpi massicci e pesanti nello stesso tempo stupisce e meraviglia. Gli esseri umani, dentro le loro scatole
di latta, perdono la loro centralità dominante, diventando per una volta invisibili e inoffensivi. Al di là dei finestrini, le gazzelle saltano, le giraffe fanno capolino dietro i cespugli ruminando foglie di acacia, gli scimmioni dal sedere lilla corrono emettendo grida di allegria. La sensazione è di essere capitati, clandestinamente, in un paradiso arcaico, lontanissimo nel tempo, prima della cacciata di Adamo ed Eva. Un
paradiso sospeso nel vuoto di una memoria fuori dal cervello umano. Certamente una esperienza anche dolorosa, che ti rammenta come la natura sia indifferente all’uomo. Ti viene il sospetto che perfino il Padre eterno sia ormai incurante della sorte delle sue
creature, perdute dietro mercati e guerre, dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Quel paradiso che ora vorremmo ricostruire, con le sparute bestie selvagge che sono state risparmiate dalla grande carneficina. Ma quale Noè potrà salvare quelle meravigliose creature dal diluvio tecnologico? La professoressa Giovanna Domenichini ha organizzato per me un incontro con gli studenti dell’università . Sono ragazzi privilegiati, che hanno avuto modo di studiare, ma non per questo sono ricchi. Portano con dignità i loro vestiti lisi, i loro libri tenuti insieme dalla colla fatta in casa e da infiniti pezzi di scotch. Parliamo di romanzi, di storie. Ma vedo che si fanno particolarmente attenti quando mi interrogo sulla funzione dello scrittore nel tempo in cui vive: un testimone? Una coscienza inquieta? Una voce di
dissenso? Uno spirito critico? Uno che dice la verità quando altri non possono dirla?
Oppure semplicemente si tratta di una persona che coltiva il suo orticello di parole preziose, puntando sulla propria capacità visionaria e precorritrice? In luoghi dove
prevalgono la povertà e la paura certamente lo scrittore è visto come qualcuno che ha il dovere e il privilegio di parlare per chi non può farlo. «Se scoppia una guerra vicino a lui, lo scrittore che fa? Ne scrive? O le sue fantasie, quando sono profonde e creative,
bastano a nutrire l’immaginazione dei lettori del suo tempo, senza alcun riferimento ai fatti che travagliano gli animi di chi vive loro accanto?». Sono domande a cui è difficile rispondere. Ma l’attenzione di questi ragazzi testimonia una gran voglia di crearsi degli strumenti per giudicare il mondo, ma anche per cambiarlo in meglio. Il teatro qui è visto nel modo antico, come il luogo nudo in cui si scontrano le ragioni del dovere con quelle
del piacere. E a teatro ci ritroveremo per leggere poesie in swahili, in inglese e in italiano. Nello stesso teatro due sere dopo, assisteremo a una versione inglese del
vecchio testo di Dario Fo, qui tradotto come A woman alone , in cui una massaia [me la ricordo interpretata da una bravissima Franca Rame] racconta alla vicina di casa le comiche infelicità di una condizione femminile di sudditanza e di schiavitù. Il Kenya non è in guerra, e anzi pratica una difficile e coraggiosa democrazia, ma confina con Paesi che stanno combattendo guerre di anni, che hanno prodotto morti infinite, torture, abusi, violenze, stupri, devastazioni di ogni genere… Molti di questi popoli in fuga si rifugiano nel Paese degli altipiani e trovano scampo in qualche baraccopoli senza
luce e senza fogne, dove regna l’arbitrio più assoluto, la legge del più forte. Io stessa ho assistito, durante una visita al devastato quartiere di Kibera, per incontrare i ragazzi che Thomas Simmons dell’Amref e Marco Baliani stanno aiutando a uscire dalle logiche della guerra, a una battuta punitiva di uomini armati di bastoni, contro donne giovani e vecchie che avevano il torto di appoggiare l’opposizione. Altri, tantissimi,
vanno a finire nei campi appositamente creati per i profughi, dove la vita è così promiscua, primitiva e infelice che il numero dei suicidi è continuamente in crescita. Gli italiani stanno dando una mano, anche sul piano istituzionale, per trovare qualche
rimedio alle guerre senza fine del Sudan, della Somalia, attraverso gli esuli che si trovano qui in Kenya. E questa è una buona notizia. Assieme con alcuni missionari, i
rappresentanti del nostro Paese, una volta tanto sono accolti con fiducia e simpatia, perché hanno trovato le parole per parlare concretamente di pace. L’invito a incontrarmi con le rappresentanti delle profughe sudanesi e somale viene da Domenico Polloni,
osservatore italiano del processo di pace per il Sudan, che conosce bene la situazione, vive qui da anni e ha buoni rapporti con le organizzazioni pacifiste africane.
Sono una decina di donne fra somale, sudanesi e keniote. Alcune più giovani, altre meno giovani, ma tutte combattive, intelligenti e, lo si vede chiaramente, spazientite dalla loro impotenza. Cosa fare per affrontare le prepotenze dei «Signori della guerra», come loro stesse chiamano coloro che approfittano delle rivalità claniche per arricchirsi rapidamente seminando terrore e odio? Alcune arrivano ad augurarsi un intervento armato dell’Onu.
Con noi ci sono anche il professor Carlo Ungaro, inviato speciale del Governo italiano per la Somalia e Marion Douglas, la sua combattiva moglie americana, che spiegano cosa hanno significato per questi Paesi poveri anni e anni di guerra civile. «La popolazione è
diventata ostaggio di bande di uomini armati che fanno solo i propri interessi, non tirandosi indietro di fronte a qualsiasi violenza. Non ci sono ragioni ideologiche dietro
questi scontri ma problemi di prevalenza di clan opposti. Sono loro che mettono in mano ai bambini le armi, per farne dei guerrieri obbedienti e spericolati. In tutto questo le donne hanno una funzione fondamentale: portano avanti le strutture economiche di una
società completamente spappolata». Spesso assicurano il minimo di istruzione nelle zone devastate dalla guerra, improvvisando piccole scuole rudimentali. Ma sono talmente denutrite che al primo assalto di una malattia, soccombono. Soffrono di cataratta precoce,
di emorragie, di aborti spontanei, di tubercolosi. Le bambine sono costrette a sposarsi prestissimo, anche a undici, dodici anni, per portare una dote, anche piccola, di due o tre vacche nella casa dei parenti. E anche per sfuggire agli stupri [«qualsiasi donna che non appartenga ad un uomo, è esposta allo stupro di gruppo e alla rapina»].
«La cosa assurda – dice la somala Medina Amir ohamed, che parla benissimo italiano, – è che noi siamo continuamente chiamate a sostituire gli uomini che sono in guerra: nell’organizzazione sociale, nella protezione della famiglia, nel commercio. Ma appena c’è
da incontrarsi per decidere del futuro della comunità , veniamo automaticamente estromesse.
Eppure abbiamo molto da dire sul futuro del nostro popolo e dovrebbero ascoltarci, per lo meno ascoltarci».
«Le donne spesso sono costrette ad assistere alla morte violenta dei mariti, dei figli, e vengono stuprate di fronte ai parenti, e alla gente del villaggio – racconta Amina Muddei -. Eppure non chiedono vendetta. Vogliamo la pace, contro qualsiasi logica di ritorsione. Quello che ci preoccupa è la totale disgregazione dei nostri popoli e dei nostri villaggi. Siamo in piena anarchia, dove ognuno è contro tutti e vince sempre il più forte. «Facciamo di tutto per creare delle zone di lavoro e di pace ma anche se ci riusciamo qualche volta, non sappiamo come rieducare i bambini abituati a torturare, uccidere e depredare. Nel ’91 le donne avevano avuto un posto in politica, c’erano delle
leggi che imponevano una loro rappresentanza. Oggi tutto questo è scomparso assieme ad ogni forma di istruzione». «Nondimeno sono proprio le donne che permettono la sopravvivenza dei villaggi – incalza Asli Ismail Du’ale – con il loro piccolo commercio,
che portano avanti a rischio della vita. Sono loro che garantiscono l’approvvigionamento della legna per cucinare, tagliando i rami nei boschi e caricandoli sulla testa. Sono loro che trasportano l’acqua dai fiumi ai villaggi, loro che coltivano il miglio, il mais, le
banane. «Stiamo tornando all’analfabetismo perché le scuole non ci sono più. Le donne non sanno
nemmeno scrivere il proprio nome. Ci sono alcune scuole private ma sono per i più ricchi. La maggioranza non ha neanche i soldi per comprarsi le scarpe. Le associazioni femminili sono state le uniche a volere costituire dei legami fra nazioni in guerra, attraverso il
piccolo commercio e le azioni di pace. Dove le armi vengono proibite si costituisce un flusso clandestino inarrestabile e anche voi italiani vendete tante armi. Oggi, sotto la pressione dei grandi del mondo, si comincia a trattare per la pace. Ma sapete chi sta
negoziando per noi? proprio quei Signori della guerra che ci hanno torturati e depredati. Vogliono mantenere i propri interessi anche in tempo di pace». «Il Sudan è in guerra da 15 anni – racconta Rachel Kirubi dell’Upper Nile Woman Welfare Association -. Il sud, in cui prevalgono i cattolici e gli animisti, si scontra col nord
che è in prevalenza islamico e considera quelli del meridione come ‘razza inferiore’. E’ una realtà frammentata, in cui tutti stanno male, salvo coloro che detengono le armi e minacciano chiunque non stia alle loro regole. L’analfabetismo sta diventando una regola,
la classe dirigente è inesistente, non ci sono più amministratori, siamo in uno stato di autodistruzione perversa».
«Noi li portiamo dentro alla pancia per nove mesi – interviene Mary Nyaulang del Sudanese Woman in Development and Peace – li alleviamo fino ai sette anni, e poi ci vengono tolti per portarli a fare la guerra. Le nostre parole di madri non contano più niente dal
momento che il bambino diventa un piccolo soldato. E dobbiamo assistere all’obbrobrio di vedere i nostri figli dalle mani ancora piccole e tenere che stringono un fucile e lo portano a casa come se fosse un giocattolo che purtroppo spara davvero». «Le donne non sono mai informate su ciò che accadrà – aggiunge polemica Anisia Achieng del Sudanese Woman Voice for Peace -. Ci vengono dati solo ordini: abbandona la tua casa entro
un’ora, nasconditi da qualche parte, porta in salvo i bambini. Ma dove e per quanto tempo? Non ci viene detto niente. Noi vorremmo costruire una cultura di pace che superi le differenze dei clan avversari, vogliamo tornare a vivere in pace, e che i nostri figli vadano a scuola in sicurezza». Le testimonianze si susseguono dolorose e simili: la guerra è una faccenda di uomini e
alle donne non viene richiesto nessun parere, mai. La guerra riduce le ragazze a rango di prede, le donne adulte a rango di serve e infermiere, come fare per riportare la pace in terre distrutte dall’odio e dal principio della vendetta, come fare per ricostruire la
famiglia e il pacifico lavoro quotidiano? Mi chiedo perché le istituzioni internazionali, quando vogliono trattare con personalità dei paesi in guerra, non si rivolgono alle donne. Non sarebbe una strategia vincente? L’autorità si crea, è un investimento che spesso viene da chi ha già una autorità . Se le istituzioni, cominciando da quelle umanitarie internazionali, scegliessero all’interno dei
paesi da pacificare, delle personalità femminili – e posso assicurare che ce ne sono – facendone un punto di riferimento anche se non istituzionale, dando loro un valore di rappresentanza, credo che i «Signori della guerra» sarebbero costretti a riconoscere a
queste ultime quell’autorità che vogliono mantenere solo per sé. Non è successo lo stesso con Rigoberta Menchu, che ha rappresentato le lotte dei popoli
latinoamericani ed è diventata un punto di riferimento anche per i capi di Stato e le organizzazioni umanitarie internazionali? La mia proposta ai governi che veramente credono nella pacificazione di questi Paesi impelagati in guerre decennali senza uscita, è proprio
questa: non rivolgersi ai dirigenti che si utopropongono come le voci autorevoli dei loro popoli, ma andare a cercare le rappresentanti di quelle associazioni femminili che dal basso premono per una politica di riconciliazione e non riescono a darsi credito per via di una atavica gerarchia del potere patriarcale. Dare dall’esterno un valore a coloro che veramente hanno interesse nell’armistizio e renderli ambasciatori autorevoli di una pace che non può passare per gli interessi eternamente rinnovati dei «Signori della guerra».

‘Indo ni Kirumithanaio’
‘Le cose buone vanno coltivate assieme’
proverbio kikuyu

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