Cattive azioni, pessimi esempi.


Proprietà e gestioni, crisi di un modello

CATTIVE AZIONI PESSIMI ESEMPI

di PIERO OSTELLINO

Il capitalismo ne ha superate di ben peggiori e supererà , quindi, anche quest’ultima crisi. Ma è un fatto che gli scandali che hanno coinvolto alcune fra le maggiori aziende americane, portandole fino alla bancarotta, rivelano una verità inconfessabile: sono entrati in crisi i meccanismi di accumulazione del capitale nella grande impresa. Per stimolarne la crescita, l’apologo di Adam Smith, che assegna all’egoismo individuale la funzione propulsiva del mercato e generatrice del profitto, è stato esteso al governo dell’impresa, nella convinzione che ciò che era nell’interesse del management fosse anche nell’interesse della stessa impresa. Invece, non solo il postulato, in questo caso, si è rivelato falso, ma addirittura controproducente. Ciò che è utile al management s’è rivelato spesso dannoso per l’impresa. Ma se si rimane all’interno della logica utilitaristica dell’apologo di Adam Smith diventa difficile sostenere che la crisi che sta attraversando il capitalismo americano e gli scandali e i fallimenti in cui sono incorse alcune fra le sue maggiori aziende siano una questione che riguarda soltanto l’etica dell’impresa e il mancato rispetto delle regole del mercato. La questione è chiaramente organizzativa e riguarda il suo modello di accumulazione. Un modello che, nella grande impresa, separando necessariamente la proprietà dalla gestione, ha generato un conflitto fra l’interesse del proprietario [gli azionisti] e quello del gestore [il management ]. Così che, qualche volta, è accaduto l’opposto di ciò che ispira la stessa logica capitalistica [la gestione al servizio della proprietà ] e che continua a regolare la vita della tanto discussa, ma preziosa, impresa familiare italiana, piccola, media e persino grande, dove il proprietario è anche gestore o, comunque, attivamente presente.
Le acquisizioni e le fusioni inutili, per produrre plusvalenze contabili, arricchiscono il management di generose stock options [il diritto di acquistare azioni a un prezzo favorevole], ma generano gigantismi scarsamente remunerativi; i licenziamenti di massa e le ristrutturazioni forzate servono ad alimentare il mito di un capoazienda muscolare, meritevole di ulteriori gratificazioni pecuniarie, ma elevano i costi sociali dei processi di accumulazione e al tempo stesso distruggono ricchezza; il meccanismo delle stock options induce il management a massimizzare i risultati a breve, cioè fino al momento di riscuotere i benefici opportunamente gonfiati, invece dei risultati a lungo termine; la stessa falsificazione dei bilanci, le informazioni scorrette fornite al mercato e ai risparmiatori, altro non sono che la logica conseguenza di un processo di accumulazione funzionale agli interessi del management ma non dell’impresa.
Del resto, per rendersi conto della distorsione, è sufficiente guardare ai livelli retributivi delle varie funzioni [finanza, amministrazione, produzione] in ogni grande azienda. La logica capitalistica vorrebbe che il livello retributivo di chi è più vicino alla produzione fosse superiore a quello di chi amministra o gestisce i flussi finanziari. Invece, accade regolarmente il contrario. Non solo. In caso di crisi aziendali, l’inclinazione del management , che non di rado è il più diretto responsabile delle difficoltà causate da acquisizioni e fusioni inutili, è solitamente quella di tagliare [ovviamente] costi e manodopera, salvo poi dimenticarsi spesso di pagarne un proporzionale prezzo personale. Per non parlare di alcune milionarie buonuscite.
Se l’esempio è la miglior dimostrazione di come funzioni il sistema, la conclusione non può che essere una sola. L’esplosione della «bolla speculativa» non è la causa della crisi della nuova economia, dovuta alla sopravvalutazione delle sue potenzialità , ma la conseguenza della crisi del suo modello di accumulazione.

postellino@corriere.it

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