Africa a mano armata


Sono 250 mila i pezzi di artiglieria leggera che circolano indisturbati tra Sudan, Kenya e Uganda. Si armano guerriglieri, razziatori di bestiame, militari. Ma anche gente comune che vuole farsi giustizia da sé.
E se qualche anno fa per un mitra ci volevano 30 mucche, oggi ne bastano 3.

di Cathy Majtenyi da Nairobi

Ichom Lotoom, un anziano Turkana di Mogila, nord del Kenya, ha un attimo di smarrimento quando ricorda il terribile furto di bestiame in cui lui e la sua famiglia hanno rischiato la vita. àˆ la seconda razzia in due anni. Quattro dei suoi dieci figli sono stati uccisi e 219 capi di bestiame rubati. ‘La mia vita è nelle mani del Signore’ dice con la voce carica di pianto. ‘Non sono in grado di difendermi’. Quello di cui ha bisogno è un’arma.
Non è il solo. Gli abitanti della fascia compresa tra Kenya settentrionale, Sudan e Uganda cercano armi. Per difendersi, come nel caso di Ichom, o per attaccare. Le cercano al punto che sono disposti a dar via cibo e altri beni di prima necessità anche per una sola pistola.
La diffusione incontrollata di armi leggere nelle regione è stata anche l’oggetto di una conferenza internazionale che si è tenuta dal 9 al 13 novembre scorso a Jinjia, Uganda, promossa da Cordaid, organizzazione cattolica olandese per lo sviluppo. Nodo cruciale della conferenza, cui hanno partecipato autorità governative, parlamentari, ufficiali di polizia, attivisti, religiosi, è stata la presentazione dei risultati di ricerche condotte su commercio, uso e traffico di armi leggere tra Sudan, Uganda, e Kenya.

Armi di Stato

Il rapporto presentato da un gruppo di studio, il Larjour Consultancy, mette in rilievo come in Sudan sia proprio il governo di Karthoum ad addestrare e armare le milizie etniche per destabilizzare le aree sotto il controllo dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese [Spla]. Conseguenza: la creazione di una miriade di signori della guerra, interessati al proseguimento delle ostilità per i propri interessi personali. La maggior parte delle armi leggere in circolazione nel Sudan meridionale, che includono anche una consistente fornitura di mine antiuomo, è giunta in passato con l’appoggio dei paesi dell’ex blocco sovietico e della Libia ai guerriglieri Spla, con i quali il governo del Sudan è in guerra dal 1983. Sarebbe stato proprio lo Spla il principale fornitore di armi leggere alla popolazione civile. Ma, dalla metà degli anni ’90, tra le armi rivendute dagli ex militanti e quelle immesse dal governo sudanese, il numero di pezzi in circolazione è salito progressivamente, secondo le stime, fino a quota 250.000 [il numero si riferisce solo alle armi leggere, a cui bisogna aggiungere anche gli ordigni inesplosi e le mine antiuomo].
Sui confini del Sudan con l’Uganda e il Kenya si addensano i maggiori mercati; si tratta per lo più di materiale proveniente da Cina, Corea del Nord, Europa orientale, Regno Unito, Israele e Usa, destinato a diffondersi anche nel Corno d’Africa.

L’apparenza inganna

Gulu è una delle maggiori miniere di armi e munizioni. L’arsenale locale dell’Updf [le unità di difesa locali] è sistematicamente svenduto ai trafficanti, grazie anche a funzionari conniventi.
I guerriglieri Karamojong sono i principali acquirenti di armi leggere e munizioni, e sono anche i razziatori più temuti. Traffico di armi e furto di bestiame appaiono strettamente intrecciati. Vanno a ruba fucili di manifattura russa, cinese e britannica. Sul confine, un kalashnikov nuovo costa tra i 70 e i 100 dollari, meno che la metà del prezzo all’interno. Ogni settimana sono venduti almeno 76 mitra. Le armi dilagano, il prezzo scende. Qualche anno fa per un AK-47 ci volevano 30 mucche, oggi ne bastano 3.
Il governo keniota ha intensificato i controlli sulle frontiere settentrionali. Ma, per alcuni, si tratta solo di azioni di facciata. Mwachofi Singo, ricercatore del Dipartimento di Politica e Pubblica Amministrazione alla Moi University, afferma: ‘La gente non si sente sicura’. E, rivelando come la frequente corruzione neutralizzi l’attività di controllo e intercettazione dei carichi di armi tra i tre paesi, aggiunge: ‘Il governo appare debole nel garantire la sicurezza. Allora la gente cerca armi per difendersi da sé’.
In Kenya, le armi leggere sono richieste soprattutto dai Turkana e dai Pokot, per difendersi dagli attacchi e depredarsi a vicenda. I politici, particolarmente nel Pokot occidentale, hanno giocato un ruolo chiave nell’incitare le comunità alla violenza, trasmettendo l’esplicito messaggio che il traffico di armi e il furto di bestiame sono attività del tutto legittime.
‘Abbiamo arrestato e processato tutti quelli trovati a commerciare armi’ si difende un funzionario della polizia keniota. Che vede la soluzione del problema ‘nell’unire le forze dei tre paesi’.

Chi è responsabile?

Su tale affermazione sono tutti concordi, ma non mancano i dissidi. In particolare sulle responsabilità . Osman Ahmed Hassan, ambasciatore sudanese a Kampala, respinge le accuse mosse al suo paese da più parti. ‘Il governo del Sudan non sa niente di piani per destabilizzare l’area controllata dallo Spla, perché basta la miseria per creare disordini in quelle zone’ afferma. ‘Abbiamo leggi molto severe che regolano l’uso delle armi da fuoco. Già solo il possederne una può portare a un anno di prigione’. D’altra parte c’è chi, come Samson Kwaie, Segretario per l’informazione e la cultura dello Spla, afferma: ‘Al di là di qualche disertore, lo Spla non ha niente a che fare con il traffico di armi’. E aggiunge: ‘Disponiamo di un sistema di registrazione delle armi fin dal 1983. Sappiamo benissimo quante armi abbiamo, e i rischi che comporta perderne una. Ognuno è responsabile del proprio fucile’. Anche l’Updf sta sulla difensiva. ‘Ci sarà sempre qualcuno che approfitta della situazione’ dichiara l’onorevole Sarah Kiyingi, Ministro dell’interno ugandese. ‘Del resto, se ci sono stati degli arresti, vuol dire che la polizia non è rimasta con le mani in mano’.
Tutti i rapporti presentati concordano tuttavia nelle conclusioni: un circolo vizioso parte dalla miseria e torna alla miseria, attraverso la tensione crescente e la pratica diffusa del saccheggio.
Solo un impegno concreto per lo sviluppo locale può spezzare questa catena. Il messaggio della società civile è rivolto ai governi, perché avviino programmi economici di risanamento e attuino misure di sicurezza più decise. Soprattutto, perché capiscano che i provvedimenti di disarmo a livello locale sono inutili senza un’azione congiunta dei paesi limitrofi.

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