Articolo uscito sul Gattopardo n.63 , scritto da Claudia Cecilia Pessina, che racconta come è nato il Parco Museo Jalari
Costruito quasi per gioco, il Parco Jalari di Barcellona Pozzo di Gotto, con le sue 42 botteghe artigiane e i quindicimila reperti, è un sorprendente scrigno della memoria.
All’inizio c’era una petraia. Là in contrada Jalari, frazione Maloto, sul monte cosiddetto Pizzo Soglio, di fronte a colle dei Tre Pizzi, a 5 chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, si diceva “qui non può crescere nulla”. Vedevi solo roccia. Qualche arbusto. Qualche singola quercia. Questa terra non interessava a nessuno.
Benché fosse in una posizione strepitosa, con una vista che abbraccia tutto il golfo di Tindari, capo Milazzo, capo Calavà e sullo sfondo quella collana di perle che sono le Eolie, niente. Non ci potevi cavare nulla. Se non “pietra luccicante”, come suggerisce già il toponimo della contrada, di origine araba. E forse fu questo, se è vero che nel nome si nasconde qualcosa del proprio destino, ad attirare la famiglia Pietrini, originaria di Barcellona, a insediarsi da queste parti. “Abbiamo iniziato nel 1973 per gioco. Volevamo una casetta in campagna per passare i fine settimana. Un posto dove stare tutti insieme. Ma poi, col tempo, abbiamo intuito che nelle pietre ci si poteva anche investire. E le abbiamo trasformate in oro”– racconta Salvatore Pietrini, che insieme al fratello Mariano, ha ideato e costruito, letteralmente pietra su pietra, uno dei maggiori parchi musei-etnografici d’Italia, conosciuto in tutto il mondo. Forse un po’ meno qui in Sicilia.
Non si tratta di un semplice parco a tema o di un museo della memoria, della tradizione locale, della storia materiale. In realtà è tutto questo insieme. Ma con molto altro. Il nucleo della visita è costituito dalle 42 botteghe artigiane, in cui gli oggetti -quindicimila reperti originali- sono collocati in modo da ricreare fedelmente l’atmosfera e la vita di un tempo, non subendo, quindi, quella decontestualizzazione che è tipica delle raccolte classiche.
“Eravamo in un periodo in cui le persone volevano lasciarsi alle spalle i vecchi mestieri. Un passato di fatiche, di sacrifici e in tanti casi di povertà. Di oggetti che connotavano quello stile di vita antico volevano solo disfarsene” – rievoca ancora Salvatore che, imprenditore in campo agricolo e delle costruzioni, è stato architetto di fatto dell’intero complesso,giardini e fabbricati.
“Noi invece siamo andati alla ricerca di quei preziosi strumenti che hanno fatto la nostra storia, che sono un concentrato di sapere, di tecnologia e di vita vissuta. Ogni oggetto che usciva dalle mani sapienti dei nostri mastri artigiani era un pezzo unico. Le nuove generazioni devono avere la possibilità di conoscere tutto ciò. E di poterne trarre insegnamenti per proiettarsi con coraggio e libertà creativa e innovativa nel futuro. Eravamo convinti che il riscatto, la rinascita morale e materiale delle genti del sud partisse proprio da lì dal riscoprire le tracce di chi ci ha preceduti, e svilupparle. Non calando schemi di crescita economici dall’alto. Come poli industriali, chimica nei campi e cementificazione, che hanno deturpato la bellezza della nostra isola. Promettendo lavoro. Che poi si è rivoltato contro di noi”.
Turismo e alimentazione, entrambi nel rispetto della natura, il binomio vincente su cui i Pietrini decidono di scommettere. Invitando tutti i siciliani, ma non solo, a fare lo stesso. “Abbiamo le risorse. Abbiamo l’abilità. Ma abbiamo la volontà di cambiare le cose? – si chiede Mariano Pietrini, scomparso nel 2019, nel suo libro “Dialogo con le pietre”.
Ciò che rende così prezioso questo luogo, è che qui ogni particolare ha un significato preciso. Ed è inserito in un disegno d’insieme. “L’idea di partenza –ricorda Salvatore- era quella di rimboschire questo terreno, circa trentacinque ettari, tutto pietre, andando contro le opinioni quanti lo consideravano impresa impossibile. Alla fine, di piante, ne ho fatte attecchire centomila. Tante essenze diverse. Sorbo, frassino, elicriso, minicucco, alloro, cipresso, giuggiolo, pino, melograno, mimosa, pistacchio, rubino, agave, acacia e agrumi. E tantissimi fiori, piante aromatiche e colture di fichidindia di vario genere. Mettevo quattro-cinquecento piantine ogni anno. Qualcuna moriva. E io continuavo. Penso che tutti dovremmo fare la nostra parte e piantare alberi. Lo penso da sempre. Molto prima che si parlasse di desertificazione”.
La presunta carenza idrica, dunque, si è rivelata fasulla. È bastata un’indagine più approfondita, un’opportuna trivellazione nei punti giusti, e l’acqua è saltata fuori. “Ma intanto – sottolinea Salvatore – tutte le pietre che andavamo togliendo le abbiamo riutilizzate. Per costruire i selciati, i muretti e gli edifici che via via stavamo progettando. Vedendolo oggi si potrebbe pensare che sia costato tantissimo. In realtà abbiamo realizzato tutto in economia. Mio fratello, artista scultore pittore e poeta, e soprattutto sognatore visionario. Io, che mi occupavo della progettazione e della gestione amministrativa. Mia sorella, che ci sosteneva negli aspetti organizzativi. E un paio di operai tunisini, che ci hanno aiutato con lo spostamento e la lavorazione del materiale da costruzione. La calce viva l’abbiamo realizzata interamente sul posto. Tutto perfettamente inserito nel contesto naturale”.
Basterebbe già questo per fare di Jalari una meta interessante. “Infatti sono tantissimi i visitatori tutto l’anno,molti stranieri. E centinaia di scolaresche da tutta Italia. Li vediamo appassionarsi alla vista delle botteghe e ai racconti sugli antichi mestieri. E poi aggirarsi felici in quest’oasi, in questo giardino incantato”, spiega Vera Pietrini, figlia di Salvatore, che insieme con i fratelli e i cugini gestisce il parco e le strutture al suo interno, oggi adibite anche ad agriturismo, eventi e manifestazioni.
Il visitatore, infatti, è condotto lungo una successione di viali che coi loro nomi evocano una sorta di cammino di ascesi, che dal punto di ingresso, dalla piazza degli incontri e dal giardino delle muse, e poi dal viale della confusione, passa per quello della riscoperta dei valori, della riflessione e dei ripensamenti, imbattendosi in quello del dolore e della speranza, ma anche dell’urlo e della contestazione. E poi da lì imbocca però quello dell’amore, della vita e dell’energia, per raggiungere infine quello della contemplazione, della genesi, dei sogni e della creatività. E approdare al viale del tempo. Alla chiesa arcaica posta in cima al percorso, dove raccogliersi. E al letto di pietra, dove ci si può sdraiare in contatto diretto con la materia di cui siamo fatti. Rivolgendo gli occhi al cielo.
A stimolare l’immaginazione lungo l’ascesa, centinaia di sculture, scolpite una a una, giorno dopo giorno,da Mariano, tutte in pietra locale o proveniente dalle vallate vicine, che raffigurano maschere dell’umano. Facce che urlano. Che interrogano. Che col loro ghigno sarcastico fanno da specchio a chi le osserva. Invitano a riflettere su quello che è diventata la propria vita, con i suoi ritmi incalzanti, il suo armamentario tecnologico onnipervasivo, i suoi oggetti di plastica. La superficialità. L’egoismo sfrenato in cui tutti ci troviamo imbrigliati.
E a veicolare tutto questo lavorio interno stanno gli elementi. La pietra, che qui è stata scolpita, ricamata, trasformata, esaltata e resa sacra, come nelle antiche cattedrali, ed è simbolo di ciò che dura nel tempo. Un invito a ritrovare in sé i valori autentici della vita. Ma anche l’acqua, che qui scorre in più di cento fontane, a evocare nutrimento e purificazione. La vegetazione, il costante rinnovarsi della natura nei suoi cicli. E infine il vento, che spira forte su questi pendii, e che simboleggia l’energia necessaria per la rinascita cui l’essere umano del nuovo millennio è chiamato. Cosa c’è di più attuale nella situazione contingente che stiamo vivendo? Ecco il significato di questo Natale.
Claudia Cecilia Pessina
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