Arriva dagli Usa un’altra epidemia: migliaia di morti per mancanza di senso

di Vittorio Pelligra – 20/08/2020 – Fonte: Il Sole 24 ore

La ricerca di un senso profondo per la nostra vita, le relazioni, il lavoro, rappresenta il bisogno più fondamentale che ogni essere umano cerca consciamente o inconsciamente di soddisfare. Riuscire a costruire una narrazione logica e coerente della propria vicenda esistenziale, sentirsi utili agli altri, capaci di fare la differenza, consapevoli di operare in vista di un fine che riteniamo giusto e degno di valore; sono questi gli elementi che ci aiutano ad attribuire significato alle nostre azioni. Ne stiamo parlando ormai da varie settimane, qui su “Mind the Economy”, anche in ambito economico. Poi, naturalmente, c’è il contesto, l’ambiente nel quale ci muoviamo, il microcosmo e il macrocosmo che abitiamo e che è determinante nel facilitare o ostacolare questo processo di costruzione del senso.
Arrivano dagli Usa, storica avanguardia delle tendenze che poi invaderanno gran parte del mondo economicamente avanzato, segni nefasti relativi all’evoluzione di questo ambiente. Uno dei più tragici è legato alla diffusione delle “morti per disperazione” (deaths of despair). Una vera e propria epidemia che ha visto, solo negli Stati Uniti, nel 2017, morire 158.000 persone di suicidio, overdose o malattie correlate all’abuso di alcool. È come se ogni giorno di quell’anno tre Boeing 737 MAX si fossero schiantati, causando la morte di tutti i passeggeri. Una tragedia di dimensioni enormi che ha la sua radice in “una società che non riesce più a offrire ai suoi membri un ambiente nel quale essi possano vivere una vita dotata di senso”. Così si esprime il premio Nobel per l’economia Angus Deaton che, con Anne Case, ha appena pubblicato un corposo studio sul tema (“Deaths of Despair and the Future of Capitalism”, Princeton University Press, 2020). Questa ‘”epidemia” è selettiva, colpisce infatti in maniera prevalente americani bianchi della classe media o operaia e con un livello basso di istruzione. È a queste persone che, progressivamente ma inesorabilmente, la vita appare sempre meno degna di essere vissuta. Questo è il primo dato anomalo.
Nel suo classico studio sul suicidio, il sociologo Émile Durkheim aveva, infatti, ipotizzato che il fenomeno riguardasse principalmente le classi istruite e ricche. Oggi assistiamo invece a un fenomeno differente: una diffusione crescente del dolore cronico – sia fisico che psicologico – tra coloro che vengono lasciati indietro, che non riescono a stare al passo di un modello di vita che viene narrato come l’unico degno di essere perseguito, ma che inevitabilmente gli è precluso a causa delle condizioni economiche, educative e di salute, che negli anni sono andate peggiorando. Come i “deboli – che nella ‘fiumana del progresso’ di cui parla Verga nella prefazione a ‘I Malavoglia’ – restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, i vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti”. Coloro che restano per via, gli scarti, i sofferenti di una sofferenza che trova origine sempre più spesso nella “lenta disintegrazione della vita sociale ed economica” della classe operaia americana che, da questa sofferenza, viene spinta sempre più frequentemente verso la dipendenza e il suicidio.
Il fattore economico è certamente presente e importante, ma non è l’unico. Case e Deaton sono, infatti, convinti che “la sofferenza non deriva solo da ciò che capita al lavoro, ma dalla perdita di status e di senso associati a certi lavori, e dalla perdita della struttura sociale che era connessa ad un lavoro ben pagato in una città sindacalizzata”. Il dolore sociale, per esempio quello derivante dal senso di esclusione o di inutilità, e il dolore fisico attivano nel nostro cervello molte aree comuni rendendo il primo non meno tangibile e debilitante del secondo e, infatti, gli stessi antidolorifici che curano il dolore fisico sono efficaci anche per quello sociale.
Ci sono fattori protettivi contro questo dolore sociale, come, per esempio, l’avere un lavoro cui attribuiamo un significato e un’utilità sociale, buone relazioni familiari con il partner e i figli, l’appartenenza a una comunità che possa aiutare e rispondere anche a bisogni di natura spirituale. Tutti elementi che sono, in questi ultimi anni, diventati relativamente scarsi per i più colpiti dalle “morti per disperazione”. E allora la prospettiva del gesto estremo si fa più concreta o altrimenti ci si getta nell’abuso di alcool o di droghe, soprattutto quando queste diventano legali, sono fortemente pubblicizzate e, inoltre, capaci di originare enormi profitti per chi le produce e le vende. Ecco il cortocircuito che rende questa epidemia di disperazione e le morti ad essa connesse un frutto maturo dell’”economia della manipolazione e dell’inganno”, per usare la nota espressione di altri due Nobel per l’economia, George Akerlof e Robert Shiller.
“Il capitalismo – e questo non lo si dirà mai abbastanza – continua a produrre gli ‘scarti’ che poi vorrebbe curare […] Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti […] Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”. Così si esprimeva Papa Francesco rivolgendosi a mille imprenditori durante l’udienza del 3 febbraio del 2017, mettendo a nudo il cortocircuito di un certo capitalismo predatorio, fatto di imprese che producono moltissima ricchezza per pochi, distruggendo, al contempo, vero valore per molti.
Quando il capitalismo diventa una religione e il lavoro pretende tutto
Occorre cambiare rotta, se ne sono accorti in tanti, ma non ancora abbastanza da fare una massa critica capace di agire per cambiare. Occorre salvare il capitalismo dai capitalisti, per parafrasare il titolo del bel libro del 2003 di Raghuram Rajan e Luigi Zingales. La diagnosi di Case e Deaton sull’origine del cortocircuito e la diffusione dell’epidemia è categorica: “l’industria [della salute] è un cancro al cuore dell’economia, diffusamente metastatizzato, che ha prodotto la riduzione dei salari, la distruzione di buoni posti di lavoro, che ha reso sempre più difficile per gli stati e il governo federale potersi permettere ciò di cui i cittadini hanno bisogno. La finalità pubblica e il benessere dei cittadini sono stati subordinati al guadagno privato dei già ricchi”. Questo processo, naturalmente, origina dall’industria, ma coinvolge la politica acquiescente con i grandi interessi economici, così come le agenzie di regolamentazione e in molti casi anche la professione medica – si parla, non a caso, sempre più spesso di morti “iatrogene”, causate cioè dalle terapie prescritte dai medici curanti.
Robin Hood è sparito dalla scena ed ora la redistribuzione del reddito è gestita dallo sceriffo di Nottingham e il suo strumento principe è la “rendita di posizione”, l’esatto contrario di ciò su cui dovrebbero fondarsi i mercati, liberi e ben funzionanti. Si sa che aliquote fiscali molto alte non farebbero aumentare significativamente il gettito fiscale dato l’esiguo numero di chi dichiara un reddito elevato. Allo stesso tempo, invece, vediamo che la sottrazione anche di piccole quote di ricchezza dai poveri ai ricchi funziona benissimo, proprio grazie all’elevato numero di coloro che hanno un reddito basso. “Questo è quello che sta avvenendo oggi e dovremmo fermarlo” sostengono sempre Case e Deaton.
In questo senso il caso dell’industria farmaceutica è davvero paradigmatico. Nel 2015, un terzo di tutti gli adulti, negli Usa, ha ottenuto una prescrizione di medicinali a base di oppioidi. Stiamo parlando di 98 milioni di persone. Non tutti questi, fortunatamente, sono morti di overdose, ma nel 2000 si sono registrate quattordicimila vittime e si sa che, per ogni morte di questo tipo, ci sono almeno cento altre persone che sono in serio pericolo a causa dell’abuso regolare. Dal 2000 al 2017 sono morte per overdose, negli Usa, più persone di quante ne siano morte complessivamente nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Questi e molti altri dati mettono in evidenza la natura profonda di questo fenomeno. Se, da una parte, esso è legato alla accresciuta domanda di una cura per la perdita di senso e di connessione sociale, dall’altra, a completare l’opera, vediamo una offerta invadente e spregiudicata di questi sostituti, alcool e, soprattutto, medicinali a base di oppioidi.
In questa epidemia di morti per disperazione l’agente patogeno non è un virus, ma, almeno negli Usa, sono state accertate le responsabilità delle imprese farmaceutiche, e del loro marketing diretto e aggressivo, di quei politici che hanno spuntato le armi dell’anti-droga impedendole di perseguire le pratiche legate alla sovra-prescrizione dei farmaci, la stessa Dea, che ha consentito l’importazione della materia prima dalle piantagioni della Tasmania e, infine, la Fda, l’agenzia di controllo sui farmaci, che ha spesso approvato l’uso di certi principi attivi senza considerarne le conseguenze sociali oltre che quelle mediche.
Sugli elementi centrali di questa vicenda Case e Deaton sono molto chiari: “Questa è una storia basata sull’ offerta, nella quale si sono generati immensi profitti rendendo dipendenti e uccidendo delle persone, il tutto con la protezione del potere politico”. Per convincersi di quanto questa tragica vicenda sia legata alla crescita spropositata dell’offerta di medicinali che hanno invaso negli ultimi anni tutti gli Stati Uniti, dovrebbe bastare questo semplice dato: in due anni, la Tug Valley Pharmacy di Kermit, un paesino di 358 anime nel West Virginia, ha ricevuto nove milioni di pillole di antidolorifici a base di oppioidi. Eppure la diffusione del dolore cronico, in questi anni, non si è certo arrestata, nonostante il massiccio uso di antidolorifici, così come non si è certo arrestata la crescita dei profitti delle case farmaceutiche produttrici.
Il caso delle morti per disperazione è una vicenda tragica che ha coinvolto e che continua a coinvolgere milioni di persone in tutti gli Stati Uniti e, quindi, merita attenzione di per sé stessa; ma la vicenda è, forse, ancora più importante perché è un esempio lampante di quel cortocircuito che parte del capitalismo contemporaneo sta mettendo in atto concentrandosi esclusivamente e ossessivamente sul profitto a qualunque costo, anche al costo di innumerevoli vite umane.
Un cortocircuito che diventa ancora più evidente se si pensa alla commercializzazione di farmaci capaci di “curare”, attraverso protocolli di “medication-assisted treatment”, più o meno efficaci, quelle stesse dipendenze che altri farmaci, prodotti dalle stesse case farmaceutiche, hanno contribuito a creare. “E’ come se – chiosano Case e Deaton – chi, dopo aver avvelenato le riserve d’acqua e aver fatto ammalare e ucciso decine di migliaia di persone, ora chiedesse un enorme riscatto per la diffusione dell’antidoto”. Può essere morale? Può essere legale?
La domanda di fondo, allora, diventa questa: com’è successo che l’economia americana, nel suo ethos ancora prima che nei fatti, sia passata dal voler servire l’interesse di ogni cittadino e consumatore ad assumere come unico obiettivo rilevante gli interessi delle imprese, dei manager e degli azionisti. È questo processo che ha eroso alle fondamenta la classe operaia, che ora minaccia la classe media e che ha portato alla diffusione di lavori pagati peggio di quanto non lo fossero anche solo pochi anni fa, più insicuri e socialmente inutili e che, come epifenomeno, ha finito per alimentare l’epidemia di disperazione e tutte le morti ad essa associate. Sempre Case e Deaton concludono: “La storia degli oppioidi si inserisce bene in questo quadro più generale ed è solo più evidente di altre, perché è raro che le corporations possono beneficiare in maniera cosi diretta dalla morte”.
“E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine” diceva Papa Francesco il 3 febbraio del 2017.
La storia delle morti per disperazione mostra, ancora una volta, quanto vicini siamo ormai a quel culmine.

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