Usciamo dalla societa’ del lavoro

Il recente Rapporto Censis ha ricordato che il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia. Circa un quarto degli occupati e’ convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa peggiorera’, il 14,3 per cento prevede una riduzione del proprio reddito e un altro 14% teme di perdere del tutto la propria occupazione. In generale si stimano in quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con situazioni di precarieta’ lavorativa. E i giovani sono ancora una volta i piu’ esposti, in termini di precarieta’ e di perdita del posto di lavoro.

Il contesto europeo non e’ comunque molto piu’ incoraggiante. Secondo il Draft Joint Employement Report della Commissione Europea, la disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti nell’Eu-28, con un tasso che e’ cresciuto dal 2008 al 2013 dal 7,1per cento al 11per cento circa. La disoccupazione di lungo termine e’ anch’essa cresciuta raggiungendo nel 2013 il 47,1per cento del totale della disoccupazione. Anche le proiezioni dell’Ilo sul 2014 (Kilm) registrano un aumento della disoccupazione di lungo termine in molti paesi, compresi gli Stati uniti.

Qualche tempo fa Alberto Castagnola, sulla base di simili trend gia’ delineati e nella consapevolezza che tali problemi sono destinati a confermarsi e ad ampliarsi nel nostro futuro, aveva avanzato su Comune-info alcune proposte per affrontare in prospettiva la questione del lavoro (Ripensare la societa’ dal lavoro. Proposte). Nella sua proposta c’e’ una parte che riguarda i campi d’intervento su cui si puo’ rilanciare il lavoro e una parte che riguarda il processo e le modalita’ politiche attraverso cui sollecitare un’iniziativa dal basso in quella direzione.

Partiamo dal primo aspetto. Castagnola individua una ventina di settori ‘di grande interesse culturale ed economico, quasi completamente trascurati dalle priorita’ dell’economia dominante’ che guardano principalmente al recupero del patrimonio naturale e culturale del nostro paese. Si va dagli interventi nelle aree di interesse archeologico e storico alle iniziative in territori interessati dal dissesto idrogeologico, dall’inquinamento, dalla deforestazione o dalle problematiche sismiche, fino al recupero di abitati di piccole dimensioni, alla riconversione ecologica di impianti industriali, ai processi di recupero dei rifiuti o al sostegno all’agricoltura biologica.

L’elenco di proposte di Castagnola ha il merito di mostrare una serie di orizzonti in cui si potrebbe intervenire creando posti di lavoro e attivita’ che andrebbero a beneficio dell’intera comunita’. Faccio mie completamente queste prospettive. Se penso per esempio alla quantita’ e alla qualita’ di patrimonio storico e archeologico lasciato in abbandono o minacciato da speculazioni in regioni come la Sardegna, la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Lazio non c’e’ dubbio che tocchiamo un nervo esposto di un Paese incapace di comprendere l’importanza e l’interesse della sua complessa e sfaccettata identita’ storica e di tradurla in un’attivita’ culturale presente e in una possibile conservazione e fruizione rispettosa. Un discorso analogo vale per la ricchezza del patrimonio ambientale. Come e’ noto l’Italia e’ uno dei territori piu’ ricchi di biodiversita’ dell’intera Europa: ospita circa il 43per cento della fauna e della flora europea e circa il 4per cento di quella mondiale. Ma e’ anche uno dei paesi piu’ esposti in Europa al degrado degli ecosistemi e dunque alla perdita di biodiversita’.

Credo d’altra parte che ci sia un motivo per cui non si e’ investito in quei settori. Non si e’ trattato di una semplice dimenticanza. Il motivo e’ che da un punto di vista simbolico il solo valore che conta in una societa’ ispirata all’ideologia della crescita e’ il lavoro produttivo, sbrigativamente identificato con quello che genera rapidamente capitale da reinvestire e con quello che predispone all’ulteriore espansione del consumo. Non conta sottolineare che questi settori contribuiscono a produrre ricchezza non solo in senso immateriale ma anche materiale. E’ nel nostro immaginario che questi settori sono improduttivi. Come improduttive sono ritenute tutte le attivita’ rivolte alla rigenerazione e alla manutenzione della vita e della comunita’. La questione riguarda dunque in primo luogo come far fiorire queste attivita’ nel nostro immaginario. Come riconoscere quella ricchezza e valorizzarla.

f2 In termini simbolici, in fondo, quello che questa situazione descrive non e’ una mancanza di imprenditorialita’ pubblica e privata, ma una mancanza di radicamento nel senso che Simone Weil attribuiva a quest’idea ovvero ‘la partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettivita’ che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro’. Un radicamento – puntualizzava Weil – dalle radici multiple, capace di accogliere influenze fra ambienti molto diversi per rendere piu’ intensa la propria vita. Per promuovere un lavoro in sintonia con un territorio, con i tesori che offre, le persone e le generazioni che lo abitano e lo attraversano, occorre dunque tenere in gran conto e valorizzare questo radicamento, ovvero renderlo oggetto di un agire pubblico riconoscibile che riguarda donne e uomini di generazioni diverse.

C’e’ inoltre una seconda questione. Questo elenco, gia’ ampio, di attivita’ e iniziative di grande valore collettivo potrebbe essere esteso ulteriormente. Si pensi all’estremo bisogno di costruire una citta’ piu’ a misura di uomini, donne e bambini/e, ovvero dell’umanita’ e assieme delle differenze di genere e generazioni. Al bisogno di ricostruire spazi di incontro, relazione e condivisione che non siano quelli commerciali, al bisogno di prendersi cura degli spazi verdi, dei parchi e degli orti urbani. Al bisogno di far sempre piu’ spazio a vie pedonali, vie ciclabili, vie verdi in citta’ altrimenti divenute sempre di piu’ ostaggio delle auto. Agli spazi di gioco e movimento dei bambini e delle bambine che si sono sempre piu’ atrofizzati confinando l’esperienza dell’infanzia a spazi chiusi, televisioni e videogiochi. Si pensi alle possibilita’ di reinvenzione dei servizi di cura e di educazione dei bambini su base piu’ comunitaria e meno istituzionale. Ai bisogni di cura e convivialita’ di una comunita’ che vede aumentare sempre di piu’ la propria componente anziana. Si consideri soprattutto l’enorme lavoro di cura non remunerato che continua ad essere delegato alle donne e rispetto al quale gli uomini hanno iniziato solo recentemente e lentamente (penso alle nuove generazioni) ad assumersi un maggiore impegno e responsabilita’. In questo campo responsabilizzazione maschile e riconoscimento pubblico rafforzarsi reciprocamente.

La relativa facilita’ con cui possiamo riconoscere gli ambiti di attivita’ per i quali si potrebbe e sarebbe auspicabile un forte investimento di energie e risorse, ci suggerisce d’altro canto che il problema con cui la nostra societa’ si confronta oggi non e’ la carenza di lavoro nel senso di possibili attivita’ umane volte a conservare, consolidare o accrescere il benessere individuale e collettivo. Il problema riguarda piuttosto la divaricazione tra attivita’ lavorative e reddito, e d’altra parte la divaricazione tra la diminuzione delle fonti di reddito e la crescente dipendenza dalla moneta per garantire il sostentamento proprio e della propria famiglia. Ovvero la realta’ della ‘scarsita’ di lavoro’ e contemporaneamente l’aumento dei working poors (persone che lavorano sempre di piu’ ma che non ce la fanno a mantenersi) e’ – contrariamente a quanto si pensa – un effetto della modernita’, della crescita e dello sviluppo e non un semplice effetto di una congiuntura economica sfavorevole.

Dunque la possibilita’ di inventare nuove forme del lavoro fuori dalla ‘societa’ del lavoro’ richiede di accettare di confrontarsi senza soggezione con un lavoro informale, con un lavoro de-mercificato, de-salarizzato, ri-localizzato, inventando modalita’ e soluzioni nuove che mettono insieme lavoro, attivita’, cura, tutela dei beni comuni, volontariato, formazione, scambio, produzione, riproduzione, autoproduzione, condivisione, redditi e benefici in forme e configurazioni differenti, ibride, plurali, in cui le vite, le esperienze, le differenze siano centrali e non accessorie. In altre parole non si tratta solo di inventare nuovi posti di lavoro ma di ripensare radicalmente l’idea di lavoro e di benessere (o ben vivere) nella nostra testa.

Da questo punto di vista si puo’ riflettere sulla proposta di Castagnola di partire dai gruppi, comitati o coordinamenti locali piu’ che attendere iniziative istituzionali dall’alto che potrebbero non arrivare mai. Si tratterebbe – secondo la sua ipotesi – di incontrarsi e individuare i beni comuni del proprio territorio che si vuole prendere in cura per elaborare un piano di intervento. Dunque si metterebbe in atto una mobilitazione e un lavoro senza retribuzione, a carattere volontario, perlomeno all’inizio del processo, in modo da far emergere l’importanza di singole azioni o progetti o di specifici settori di intervento valorizzando in questo modo sia i lavoratori che il patrimonio collettivo di una comunita’. Lo scopo e’ creare una partecipazione dal basso e di mostrare un’alternativa alla sindrome della crisi economica, della mancanza di fondi, dell’atteggiamento passivo verso le istituzioni pubbliche e rappresentative. Castagnola cita alcune recenti esperienze significative in proposito.

Ma forse lo spirito originario di simili progetti puo’ esser fatto risalire allo ‘sciopero alla rovescia’ promosso da Danilo Dolci a Partinico nel febbraio del 1956, quando quasi mille persone, tra contadini, operai, pescatori e allevatori, intellettuali e disoccupati, accorsero alla sua chiamata per rimettere in ordine volontariamente una vecchia strada dissestata di campagna. La polizia reagi arrestando e processando Dolci per occupazione di suolo pubblico, sedizione e resistenza a pubblico ufficiale. La vicenda si trasformo’ in un dibattito attorno all’articolo 4 della Costituzione, quello che afferma il principio del diritto al lavoro.

Azioni di questo genere sarebbero oggi di grande attualita’. Ma per non lasciare simili iniziative nel solco del semplice gesto dimostrativo occorre forse domandarsi quali sono gli spazi collettivi in cui le persone possono tornare a confrontarsi, individuare problemi e promuovere iniziative pubbliche che offrano soluzioni o prospettive al vicolo cieco in cui ci troviamo. Io credo che simili iniziative andrebbero pensate e promosse dentro a delle comunita’ di pratiche dove possano assumere lo spessore e la prospettiva adeguata.

Penso – solo per fare un esempio che mi sta a cuore – che questo tipo di temi potrebbero e dovrebbero entrare dentro alla discussione delle Reti di economia solidale, dentro alle esperienze dei Gas e piu’ ancora dei Des, se questi cominciassero a riconoscersi nuovi luoghi di elaborazione collettiva finalizzata non solo all’organizzazione dei legami tra produttori e consumatori ma al ripensamento di un’idea differente di comunita’, di benessere, di convivialita’. In altre parole il futuro del lavoro e la reinvenzione degli spazi di iniziativa democratica sono e saranno sempre di piu’ intrecciati. Nel coltivare coraggiosamente l’incontro tra pratiche economiche differenti e il ripensamento di forme di democrazia dal basso potrebbero fiorire davvero iniziative innovative e dischiudersi orizzonti imprevisti.

 

La foto e’ tratta da fotothing.com.

Marco Deriu, sociologo, e’ ricercatore e docente presso l’Universita’ di Parma. Fa parte dell’Associazione per la Decrescita e dell’Associazione Maschile Plurale. E’ autore di diversi libri, gli ultimi sono Il futuro nel quotidiano. Studi sociologici sulla capacita’ di aspirare (Egea, con O. de Leonardis) e Davide e Golia. La primavera delle economie diverse (Jaca Book, con L. Bertell, A. De Vita, G. Gosetti).

(Tratto da: http://www.ariannaeditrice.it)

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