Agire non è fare

altHanna Arendt con l’espressione ‘vita activa’ individua tre componenti fondamentali delle attività umane – il lavorare, l’operare e l’agire – connesse alla condizione umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra.

Il lavoro assicura la sopravvivenza individuale e collettiva della specie, il frutto dell’operare è “un mondo artificiale di cose”. E’ possibile lavorare e produrre anche in solitudine, mentre non è possibile agire se non in relazione almeno ad un’altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Lavorare e produrre non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre.

Specificamente umano è, invece, l’agire insieme, che costituisce l’ambito della politica. Questo presuppone il rapporto tra una pluralità di individui e vede il linguaggio come mezzo essenziale. “Questa pluralità è specificamente la condizione  – non solo la conditio sine qua non ma la conditio per quam – di ogni vita politica”. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente all’oikos dei greci: quest’ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell’emergenza del nuovo.

Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all’agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell’immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all’oikos  e alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si trattasse di un’unica famiglia e un generale conformismo e, dall’altro, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale.

La nostra epoca, inoltre, ha stravolto il significato della parola ‘agire’. “Quelli che noi chiamiamo ‘atti’ non sono frutti dell’agire ma appartengono piuttosto al suo contrario, al patire o talvolta al niente (per esempio, l’atto di mangiare). In altre parole, ‘fare’ non significa ‘agire’. Nella nostra società disciplinare, sappiamo ciò che dobbiamo fare in ogni momento della giornata. Sappiamo bene chi è una persona attiva. Non è una persona che suona il trombone, dipinge, fa l’amore o osserva il mondo. La persona attiva obbedisce a un fare regolamentato, superdisciplinato. Attivo e passivo sono, nel nostro mondo, le due facce del medesimo patire”. Ma ogni essere umano aspira ad agire perché questo significa manifestare ad altri qualcosa del proprio essere, della propria natura.

Considerare ogni situazione in termini economici e ogni relazione in termini di potere ci allontana da un tale agire e ci consegna irrimediabilmente all’immediatezza del momento. “L’esistenza di un quadro iperattivo è saturata da un immediato riconoscimento della società mentre quella di un tossicodipendente o di un perverso è dominata da un immediato giudizio di marginalità. Sono tuttavia accomunati da uno stesso patire, da questa vita condotta in un’immediatezza insuperabile.”

La nostra società si crede massimamente attiva in quanto iperattiva ma una tale iperattività è del tutto diversa dall’agire perché in essa sono assenti consapevolezza e conoscenza di sé. “L’iperattività è dunque una sorta di doppio sintomo dell’impasse e della sofferenza verso cui ci conduce la nostra incapacità di agire e della necessità politica di continuare a giustificare il sistema che ci costringe a questo”.

In opposizione a ciò occorre, secondo la Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l’azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile. L’agire passa, quindi, attraverso la rinuncia al controllo della situazione, ci impegna sempre in qualcosa di ignoto e nell’accettare gli interrogativi che ci portano verso la molteplicità.

“L’agire è quel momento in cui mi faccio un po’ da parte e mi lascio traversare da elementi di una molteplicità a cui appartengo” rinunciando all’immediatezza del giudizio e alle risposte note e facili, superando le generalizzazioni e le etichette. “L’agire mi fa per forza perdere la bussola. Agire mi fa cercare l’armonia, il senso di collettività. L’agire è sovversivo”.

Myriam Ines Giangiacomo

Citazioni da: Hanna Arendt, Vita Activa, Bompiani Milano, 2006 e da Miguel Benasayag, Contro il niente, ABC dell’impegno, Feltrinelli Milano, 2005

Articolo ripreso da managerzen . it

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