Lo Stato imprenditore. Una riflessione

Mi sembra largamente assente, ma sono pronto a smentire senza indugio qualora fossi caduto in errore, una compiuta riflessione da parte dei movimenti di protesta e opposizione che si stanno sviluppando in questo periodo, sia in Italia che altrove, sul ruolo dello Stato nell’economia al di là dei servizi essenziali, più o meno estesamente intesi, e del welfare attorno ai quali non si crea un vero e proprio “mercato”.

A mio avviso tale tema è essenziale per una completa formulazione di una proposta davvero innovativa e antisistemica, quindi l’auspicio sarebbe quello di aprire un “fronte di progettualità” con queste mie poche battute.

Appena si parla di “Stato imprenditore” siamo subito portati a pensare da un lato all’inefficienza e dall’altro alla necessità di farsi carico di ogni possibile rottame industriale in situazione di decozione. Questa prospettiva deve essere ribaltata, e non solo in una rivisitazione utopistica ma per dare delle risposte concrete alla pesantissima crisi che stiamo attraversando. Tanto più che il supporto alla manodopera e ai progetti di ristrutturazione viene sempre dalla fiscalità generale, sia essa contributiva o tributaria, e dunque dalla collettività (ammortizzatori sociali, incentivi, trattative con la pubblica amministrazione per “valorizzare” terreni e aree in via di dismissione…) senza naturalmente contare i “costi sociali” e le esternalità negative, quindi non è vero che sia “il mercato” o, meno pomposamente, lo stesso mondo produttivo, a sbrogliare la matassa della presente crisi. Senza poi rivangare il “socialismo al contrario” della socializzazione delle perdite e dalla privatizzazione degli utili, come avvenuto con le grandi banche d’affari estere.

Si pensi solo che era stata riesumata l’idea di un “nuovo IRI” all’epoca della scalata transalpina di Lactalis su Parmalat. Dopo aver tanto ironizzato sui “panettoni di Stato”, non ci resta che piangere sul latte…Rubato. Si veda in questo senso la circostanziata cronistoria della razzia ricostruita da Ettore Livini in “la Repubblica-Affari&Finanza” (pp.4-5) lo scorso 17 ottobre. Solo per quel caso si parla di un cash-pooling (nome bocconiano per dire sbafo) da 1,4 miliardi di Euro compiuto ai danni della nostra struttura industriale, in un settore centrale come l’agroalimentare ma non certo “strategico” nell’accezione tradizionale.
Un primo passo che dovrebbe essere compiuto sarebbe una legge quadro che dia compiuta attuazione all’articolo 46 della Costituzione ( “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”), nulla di eversivo quindi. O forse si, a sentire le polemiche scaturite da un intervento del procuratore Ingoia al recente congresso dei Comunisti Italiani nel quale si è definito “partigiano della Costituzione”. Non si capisce dove sia lo scandalo, visto che su quella Costituzione ha giurato. E lo avrebbero fatto anche i membri del Governo, per chi se lo fosse scordato.
Sarebbe necessaria la strutturazione di una direzione dell’impresa in crisi da parte dei lavoratori, mediante una parziale condivisione di responsabilità: anticipi sulla liquidazione da parte dei lavoratori e garanzie fideiussorie e/o reali da parte dell’ente pubblico, che consentirebbero un più economico accesso al credito nella fase di rilancio. In questo modo si tramuterebbe la crisi in opportunità, dando allo Stato la possibilità di acquisire partecipazioni azionarie in società anche rilevanti e detentrici di un avviamento altrimenti disperso. Tanto più se queste sono state già in partenza finanziate con interventi di sostegno come la famosa “Cassa del Mezzogiorno”.

L’obiezione ovvia, e quella che poi ha portato al fallimento (non solo giuridico ma anche economico) di molte “partecipazioni statali” è l’influenza della politica, essenzialmente interessata a coltivare la clientela elettorale, nel mondo imprenditoriale in cui si verrebbe a inserire. L’obiezione si può confutare su un duplice piano: anzitutto non è che senza la politica le cose stiano andando così bene, ma non è certo dirimente, in secondo luogo il controllo gestionale dovrebbe essere affidato a un collegio di maestranze, caratterizzandosi questo per una posizione di “primary stakeholder” (portatore di interesse essenziale alla vita dell’impresa). Cosa che, in qualche modo, è successa con l’occupazione del Teatro Valle di Roma, esempio concreto di come possa essere praticata un’alternativa.

Sotto una prospettiva temporalmente più estesa potrebbero tornare sotto il controllo pubblico in senso lato settori più ampi e non necessariamente strategici poiché l’acquisizione di risorse sul mercato agendo “iure privatorum” potrebbe costituire un valido modo per integrare le entrate fiscali, senza contare il contributo alla fiscalità aggregata dato da fiscalità e parafiscalità dei lavoratori stessi.

L’idea è, ovviamente, portatrice di una dirompente spinta politica poiché sarebbe un formidabile grimaldello per demolire quell’ultraliberismo selvaggio che l’Unione Europea, non da oggi, esprime. Sarebbe cioè un modo per far passare l’idea che l’UE si sconfigge e si estirpa nelle sue ramificazioni più nefaste proponendo strade radicalmente alternative rispetto a quelle che questa impone sulle spalle degli strati maggioritari della popolazione, del 99% oserei dire, tanto per fare una proporzione in voga oggidì. L’esito della PAC (Politica Agraria Comunitaria) così come l’obbligo di dismettere settori sempre più ampi di industria a partecipazione pubblica o, solo per amore di elencazione, l’apertura verso la globalizzazione della razzia nei diritti del lavoro hanno portato ad una desertificazione industriale dalla quale siamo tutti pesantemente colpiti facendoci diventare una colonia di consumatori, mercato di sbocco per ogni multinazionale che si affacci (Ryan Air, Carrefour, Apple, IKEA, Auchan, Volkswagen, la già citata Lactalis e via elencando).

Tale situazione è doppiamente grave in un momento in cui sarebbe essenziale reinventare il modo di produrre e dare indirizzi nuovi al raccordo fra settore primario e secondario per traghettare il nostro mondo produttivo verso frontiere compatibili con l’ambiente e in grado di migliorare la qualità della vita di tutta la società e non solo di creare una busta paga. Busta paga che, come chiunque sa, è sempre più magra visto che l’uscita di scena delle grandi imprese a capitale pubblico (notoriamente più generose con le maestranze) ha spinto verso il basso le condizioni di lavoro di interi settori (trasporti, energia, telecomunicazioni…).

Alberto Leoncini

albertoleoncini@libero.it

 

 

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