Pareggio di bilancio e necrofilia costituzionale

Una delle più crasse bufale con le quali il Governo ci sta intrattenendo in questi giorni di tragicomico spettacolo riguarda la costituzionalizzazione del “pareggio di bilancio“, mediante la modifica dell’art. 81 della Costituzione, che riguarda proprio la materia contabile. Al di là del giustificato panico per ogni occasione nella quale ai legulei presenti in parlamento sia dato di toccare la Carta, chiunque abbia delle nozioni di base di contabilità pubblica e di finanza pubblica allargata sa benissimo che questa operazione è un puro e semplice diversivo per sviare l’attenzione della cittadinanza, difatti l’interpretazione corrente del quarto comma di detto articolo (obbligo di copertura per la spesa) è qualificata come “criterio ordinatore dei valori costituzionali”, ciò significa che lo Stato può provvedere alla soddisfazione degli stessi nei limiti delle risorse di cui dispone, ma già nel 1966 con la sentenza numero 1 (la cui lettura consiglio, essendo peraltro scritta molto bene) la Corte Costituzionale è intervenuta delineando la necessità di un “tendenziale equilibrio fra entrate e spese”. Or sono 45 anni fa!
Tant’è che nessuno parla mai dei mostruosi rendimenti sui titoli di Stato di cui il nostro bilancio è stato gravato dal divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro (1981), che sono stati il vero propellente del raddoppio dell’indebitamento pubblico degli anni ’80. Altro che spesa sociale!
Nulla di nuovo sotto il sole, dal punto di vista prettamente giuridico. Peccato che modificare allo stato attuale la Costituzione sia pura e semplice necrofilia, stante che, sotto qualunque profilo, può essere scavalcata dall’ordinamento comunitario grazie (anche) alla lungimirante modifica del titolo V della seconda parte effettuata a colpi di maggioranza da D’Alema nel 2001 (e questi sarebbero l’alternativa!) che ha inserito nell’art. 117 della stessa gli “obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario” come vincolanti nei processi legislativi e decisionali statali. Già da prima, invero, ciò era possibile e ampiamente accettato, ma ad esempio era unanime opinione della dottrina che non fosse possibile per l’ordinamento comunitario ingerirsi in ambito penale, aspetto oggi pacificamente accettato, pertanto ci troviamo di fronte all’astratta (ma neanche troppo!) ipotesi per la quale una norma penale incriminatrice (quella che decide chi va in galera e chi no, mica fesserie!) possa derivare non dal confronto fra maggioranza e opposizione in Parlamento ma da un ente sovrastatale e autocratico come la UE. Lo stesso ragionamento può essere esteso all’art.41 inerente la libertà economica, anch’esso oggetto di dibattito, ridotto a simulacro dalla normativa comunitaria su mercato e concorrenza.
Il problema dell’Italia di oggi concerne l’intera classe politica, difatti anche andando a valutare la “contromanovra” proposta dal PD (l’architrave dell’opposizione!) si notano almeno due misure totalmente folli: l’una tantum sui capitali scudati e il piano di dismissioni, privatizzazioni e liberalizzazioni. Lo scudo fiscale, una vergogna per i decenni a venire, doveva essere bloccato in Parlamento quando fu varato, non con questa manovra palesemente incostituzionale in quanto violativa dell’irretroattività della norma tributaria (art. 53 Cost.ne e Statuto del Contribuente, l. 212/2000) sotto le specie dell’attualità ed effettività della capacità contributiva. Invero autorevoli voci della dottrina tributaristica discutono sulla costituzionalità dell’istituto del condono, lesivo dei singoli diritti soggettivi dei consociati e dell’indisponibilità del prelievo tributario, ma dal momento in cui è stato fatto, non vi si può metter mano. Ciò non per difendere chi ha scudato, ma per tutelare la pregnanza della legalità.
Sull’altro punto che stigmatizzavo prima, non credo ci voglia una laurea o particolari competenze tecniche per capire che vendere e dismettere in un periodo di bassa domanda e di contrazione borsistica significa solo e semplicemente promuovere i saldi di fine stagione sul patrimonio pubblico.
In aggiunta a questi aspetti mi preme sottolineare come tutto l’impianto della finanza pubblica sia caratterizzato dalla totale assenza di spinta propulsiva verso l’indirizzo delle allocazioni dei contribuenti. Lo strumento fiscale è, difatti, un fondamentale espediente per agevolare o disincentivare comportamenti economici socialmente meritevoli o, viceversa, riprovevoli. Ebbene, si sta facendo di tutto per deprimere e disincentivare le allocazioni che producono “esternalità positive” (un esempio su tutti: l’istruzione, motore del progresso, i cui benefici vanno a tutta la collettività). Ma al di là di questo fine “morale”, ci sono ragioni ben più spicce per avere di che preoccuparsi. La contrazione della domanda aggregata generata da questi tagli, effettuati sotto la dittatura di Francoforte, avrà esiti drammatici. Un esempio già sotto i nostri occhi? Nel silenzio generale, salvo qualche minuscolo trafiletto, lo scorso anno fiscale è stata eliminata la parziale deducibilità dal reddito dei costi per abbonamenti al trasporto pubblico locale (che tra l’altro colpiscono i soliti pendolari!). Ebbene, vi sembra casuale che dopo nemmeno un anno sia in programma la dismissione dello stabilimento “Irisbus”, l’unico in Italia a produrre autobus? Non vi sembra correlato con ridimensionamento della domanda del bene “trasporto pubblico”?
Lascio ai lettori qualsiasi commento.

Alberto Leoncini
albertoleoncini@libero.it

 

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