«Una teologia della carne». La centralità del corpo umano nell’arte religiosa del Rinascimento e del Barocco

caravaggio_crocifissione_san-pietrodi Mario Pancera

Una cascata, un fiume straripante di corpi nudi e seminudi, di madonne che allattano, susanne che si mostrano e maddalene che si pentono, di muscolature virili, sessi, adami, eve, sante e santi con sogni erotici, questa la maggior parte dell’arte tra il Quattro e il Seicento. E anche martirizzati, accanto a crocifissi, teschi, mecenati vestiti e putti ignudi, un trionfo pittorico di corpi che, esaminati insieme, nelle pagine riunite appunto per mostrarli, anche se già visti negli anni nelle chiese e nei musei d’Italia e d’Europa, così densi di fede, carnalità e mistero, ci lasciano stupiti.

È vera fede o non piuttosto religiosità o devozione «laica», soprattutto espressa attraverso la pittura per dimostrare  la propria bravura d’artista e il legame con il proprio tempo e la propria (a volte terribile e incombente) società? Comunque sia, queste opere sono raccolte e scrutate quasi al microscopio con l’amore e la passione di un grande ricercatore dell’arte nel volume «Pittura, sacralità e carne nel Rinascimento e nel  Barocco» di Giovanni Bonanno, ordinario di storia dell’arte moderna nell’Accademia di belle arti di Palermo, oltre che studioso di teologia e di letteratura e autore di numerosi libri (ed Electa, pag. 304, euro 60,00).

È il prefatore, Timothy Verdon, che parla di «teologia della carne», da cui ho tratto il titolo, indicando il cuore dell’argomento che è la «centralità del corpo umano nel vissuto della fede cristiana e quindi anche nell’arte che questa ha governato nei secoli». Basterà ricordare alcuni nomi e luoghi per avere un’idea dell’imponente lavoro di Bonanno. Bisogna partire, per forza, dalla carnalità – di tra materiale e spirituale – di Michelangelo nella Cappella Sistina, dove il corpo umano vive per la prima volta nella sua pienezza, in un approccio tra creato e creatore, con un contorno quasi oceanico di figure e di spazi. Tra la fine del Quattro e quella del Seicento passano due secoli, in questo senso grandiosi.

Chi può dimenticare Masaccio e Raffaello e Antonello da Messina (si guardino le mani della sua celeberrima Madonna col velo blu, ma anche le sue livide crocifissioni)? I forti visi dei discepoli di Gesù oppure i bambinetti nudi e indifesi accanto al grembo materno? E le Maddalene del Caravaggio o le sue varie uccisioni e decollazioni e tormenti e i suoi santi o poveretti urlanti di dolore e la quasi incredibile incredulità di san Tommaso, che viene circa un secolo dopo il Michelangelo vaticano? E Tiziano, Tintoretto, Giorgione? Non si può dimenticare il Signorelli visto nel duomo di Orvieto, così come il Giotto degli Scrovegni di Padova; né, a chi li ha visti, accadrà di scordare le opere di Orazio Gentileschi e della fatale Artemisia. Da qui, dalle opere del nostro paese, l’Autore tocca poi l’Europa, a partire dal delizioso Jean Fouquet, con una famosa e poetica Madonna col Bambino del 1450, per arrivare ai più «moderni» dipinti di La Tour e di Rubens.

Ma ci sono due opere che cito perché vi sono affezionato, e sono forti e violente, sia pure in maniera diversa l’una dall’altra. Sono il Cristo morto di Mantegna (un quadro abbastanza piccolo, dove il corpo è visto di scorcio) che si trova nella Pinacoteca di Brera, a Milano; e la grande Crocifissione di Grünewald, urlante nel vuoto, che si trova nel museo di Unterlinden a Colmar, in Francia. Sono da vedere, direi, da meditare: qui, mi sembra, quasi si toccano con mano, arte, umanità e fede nella loro tragica pienezza.

Mario Pancera

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