Il cafone italiano

I clienti dei mega centri commerciali che nascono come funghi ad ogni angolo delle città hanno uno stile comune, inconfondibile: la cafonaggine. E per cafonaggine intendo non tanto quella villania intesa come mancanza di un’educazione civile, quanto il distinguersi per una mentalità simile a quella dello zappatore, del contadino ignorante inurbato, del servo della gleba, o per meglio dire, dell’ultimo ritrovato tecnologico. Vivere, per il cafone, voleva dire fino a qualche decennio fa essere soggetto a limiti imposti dal padrone, dalla natura, dalla scarsità di mezzi (Ludovico Polastri).


In campagna, il cafone era il poveraccio che campava usando non la testa, ma, come l’asino e il bue, affittando la forza muscolare. E per secoli, la vita dello zappatore, del cafone, è stata agra: dominata dalla fatica e dall’incubo della fame, era tutta ingabbiata in restrizioni, difficoltà, impossibilità. Del resto il termine cafone è di origini meridionali, parola usata spesso da Ignazio Silone per identificare lo strato culturale più basso di una società rurale. Un termine che senz’altro identifica il popolo italiano.

Il mondo industriale ha liberato il cafone da questi limiti esterni, e lo ha reso partecipe (senza suo merito) dell’abbondanza generale. Soprattutto, lo ha strappato alla zolla e lo ha gettato nelle miriadi di attività che offre l’urbanizzazione. Un tempo i cafoni si trovavano solo nei campi, o in tempi di carestia davanti alle chiese a mendicare, in lunghe file stracciate. Oggi, cafoni stanno dietro gli sportelli bancari, rispondono al telefono dei centralini, in genere compiono mansioni minime, parcellari , alla loro portata, tuttavia, purtroppo necessarie al funzionamento della società civile. Sono quelle persone che rispondono scortesemente, che fanno apposta a creare disservizi, che alzano le spalle di fronte ai disguidi da loro provocati, rivendicando solo diritti e nessun dovere. E sono quelle persone che poi si ritrovano nei templi del consumismo di bassa qualità, con l’unico desiderio di agghindarsi come l’uomo primitivo degli ultimi giocattoli tecnologici, da vantare al ritorno in ufficio il lunedì mattina alla macchina del caffè. Sono quelli che chiamano le figlie Noemi, Eli, nomi che hanno subito un’impennata all’anagrafe, che parlano per ore di calcio, accalorandosi oltre ogni senso logico, che fremono per una partita, per l’infortunio di un giocatore, che si dicono “fortunati” se trovano la domenica il posto per l’auto vicino allo stadio.

Il cafone non ha nessuna esigenza culturale da soddisfare ma solo quella di avere “roba”, acquistare quantità, di tutto, senza un barlume intellettivo, perché così fan tutti e lui non può essere da meno; è di facile contentatura come la sua gola: le sue scarpe, che paga carissime, tendono ad essere Reebock o Nike, prodotte in milioni di esemplari, la bardatura della signora cafona sarà un Versace (il sarto preferito dai neo-ricchi russi) e una borsa della spesa con però la scritta “Moschino”: la griffe, che consente di vendere ai cafoni carabattole Made in China a prezzo spropositato. Il cafone, poi, si rifornisce di telefonini e televisori e si compera l’antenna parabolica per vedere le partite via satellite, ma senza la minima curiosità per la scienza che gli ha messo in mano quegli strumenti. Egli vive nella cultura come fosse la natura, si limita a raccoglie i telefonini come se nascessero dagli alberi; una mente angusta e torpida, con un limitatissimo repertorio di curiosità, e perciò sospettoso di ogni innovazione.

Il cafone è infatti insieme sospettoso (perché sente che gli sfuggono i rapporti complessi e dinamici che si creano nella società urbana, tutti gli aspetti tecnici e superiori della civiltà) e conformista. I suoi negozi preferiti sono quelli in franchising. Se ci si sofferma sui commenti che fanno queste sub-persone sono sempre quelli: “che bello!”, “lo voglio!” e via di seguito. Miriadi di cafoni inurbati, in Italia soprattutto, restano fermi all’idea che essere ricchi significa “mangiare” a crepapelle. La mangiata è il rito che accomuna la plebe. Ma naturalmente non assaggeranno cibi naturali o raffinati, sospettosi di ciò che non hanno mai provato, reclameranno, come segno della ricchezza, quantità più grosse di quei cibi che mangiavano da poveri, quando erano zappatori: più pastasciutta, più polenta con uccelli, casomai rivendicando le loro origini padane. I ristoranti infatti che fanno fortuna e si creano una fama, in Italia, sono quelli che offrono pastasciutte, cotechini, lardo fuso, polenta taragna. Attenti a non trasgredire mai con una proposta fantasiosa, nobile, signorile.

Per quanto riguarda i programmi televisivi il cafone è inebriato dalla loro varietà non riuscendo più distinguere quel che è reale da quel che vede in tv. Recenti sondaggi hanno verificato le nuove generazioni ignorano cosa sia stata la Shoah mentre reputano vere le avventure di Harry Potter. Tuttavia se lo si sente parlare, il cafone vanta delle sue “opinioni”, rivendica dei pensieri o citazioni “culturali”. Naturalmente, sono le opinioni prefabbricate per lui dai media, le più dozzinali, i “luoghi comuni”. Il cafone mondializzato non legge. Ma se decide di acquistare un libro, decreta il successo di massa di opere come quelle di Vespa e di manipolazioni fantastiche come “Il Codice Da Vinci”: ancora una volta, perché vi trova la conferma che “le cose non sono come ce le raccontano”, e perché non sa distinguere fra realtà e menzogna.

Ed allora in questo panorama cos’è per il cafone la democrazia e soprattutto chi la rappresenta al meglio? Max Weber ha insegnato che, nella tarda civiltà, quella decadente, corrotta, alla cafonaggine della società corrisponde il “cesarismo” dell’organizzazione politica. Piccoli despoti alla Bossi, Berlusconi, Marrazzo, D’Alema e tanti altri impegnati a diffondere la “democrazia” adatta alla civiltà dei nostri giorni. In Europa, la Commissione burocratica tratta i propri sudditi come “allevati” da stalla zoologica, mantenendoli torpidi e angusti come buoi e asini. La democrazia fu la conquista di popoli, che vollero diventare cittadini reclamando in piazza, anche con scontri, la loro parte di potere legale: niente tasse senza rappresentanza. Ecco perché la democrazia si sta sfasciando, perché i nostri leader sono cafoni, e si comportano come tali e la gente invece di scacciarli li imita, li adora. La dittatura è l’esito più radicale della democrazia, quando, s’intende, al posto dei cittadini ci sono dei cafoni.

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