Esportazione di armi, laviamoci le mani?

Ciclicamente fanno capolino su giornali e siti internet dossier e documentari sui pingui affari degli armaroli, che anche a casa nostra non patiscono certo la fame. Molte voci, non solo della sinistra oltranzista o pacifista, invocano norme più strette per l’esportazione di armi, credendo in questo modo di risolvere il problema: chiudendo il recinto dell’orticello [Alberto Leoncini].

In un mondo globalizzato come il nostro, i movimenti delle merci e delle persone sono facilissimi: il turismo della fecondazione, dopo l’approvazione della legge 40, ne è un esempio, quindi è evidente che, quando anche un singolo paese prenda dei provvedimenti in una certa direzione, le scappatoie esistono eccome, specialmente quando ci sono di mezzo affari tutt’altro che irrilevanti. Penso che i produttori di armi europei sarebbero i primi finanziatori di una campagna per il blocco delle esportazioni italiane: una succulenta fetta di mercato diventerebbe libera e pronta per essere divorata da altri soggetti.

Come si dice “pecunia non olet”, il denaro non ha odore, quindi potremmo dire che l’industria bellica è più o meno come ogni altra. Si tratterebbe di una posizione semplicistica e moralmente deplorevole, anche perché il settore dell’industria bellica trae la sua linfa da quel brodo di coltura di corruzione, guerre e violenza che caratterizzano, ancor oggi, troppe parti del mondo, dato che le forniture belliche non vengono utilizzate per il tiro al piattello o per creare suggestive composizioni da porre sopra i caminetti. Non parliamo poi delle armi leggere utilizzate nell’altra piaga da non sottovalutare, la caccia, il cui corollario è il bracconaggio, che mina pesantemente la sussistenza di tante specie e l’equilibrio di vasti territori europei.

Le iniziative contro la guerra, la caccia e ogni forma di tortura e violenza sono assolutamente essenziali e irrinunciabili, tuttavia la costruzione e la vendita di armi sono anzitutto una conseguenza di decisioni e scelte umane. In questo senso va letta la mia affermazione secondo cui l’industria bellica “è un settore come un altro”, certo, l’utilizzo dannoso e pericoloso dei suoi esiti è assai più facile e diretto, ma non è con il suo blocco che finiranno le guerre, questa posizione potrebbe ricordare quella dei “sabotatori” che distruggevano a colpi di ciabatta le macchine, ritenendole la causa dello sfruttamento e della disoccupazione; l’accresciuta consapevolezza ha dimostrato che forse non è proprio così.

Se le armi non le costruiremo noi, ci sarà qualcun altro che sarà prontissimo a farlo al posto nostro, e non voglio dare a questa mia affermazione alcun valore di disinteresse, ma semplicemente constatare un triste dato di fatto, che si basa sull’osservazione del rapporto domanda/offerta: il nodo su cui agire per una politica di pace è quello di far cessare la domanda, perché a quel punto l’offerta sarà semplicemente inutile. Il ragionamento appare semplice, a mio modo di vedere, e forse cerca di cogliere una sottigliezza che la nostra classe politica preferisce trattare con miopia: è più semplice lavarsi le mani e la coscienza chiudendo l’orticello piuttosto che uscire a lavorare fuori da quello stesso orticello.  Se ci pensiamo, poi, la nostra Costituzione parla di “ripudio della guerra”, cioè mira a sradicare quella parola e ciò che ne consegue dal vocabolario dell’azione politica, cosa che invece gli ultimi governi hanno ampiamente disatteso.

Qualche tempo fa la IVECO, aveva vinto con la sua consorziata cinese, una gara per la fornitura di “unità di tortura mobili” per il governo di quel paese. La sezione italiana dell’associazione “Amnesty International” aveva promosso una campagna per chiedere all’azienda di rinunciare all’appalto; vorrei che mi si spiegasse  in che modo questo avrebbe influito nell’affermazione dei diritti umani nel gigante asiatico. Direi che sarebbe stato indifferente, quando le condanne a morte eseguite e notificate sono circa 5000 all’anno!

Bisogna poi dire che le cointeressenze che legano le Banche ed il commercio d’armi, grazie al loro ruolo di intermediarie, rendono assai difficile un effettivo controllo sulle transazioni ed i traffici,  pertanto ritengo che “una politica di pace” vada costruita di giorno in giorno, non certo con proclami o dichiarazioni d’intenti che ricordano più un esercizio di retorica che un desiderio d’azione.

Alberto Leoncini

 

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