L’inferno nel cuore dell’Africa

L'Ituri scavalca il Darfur tra le peggiori crisi umanitarie del mondo. Poche centinaia di chilometri separano le due regioni colpite da quelle che le Nazioni Unite hanno definito le più gravi emergenze umanitarie del mondo: Ituri e Darfur. Messi insieme, questi due nomi producono dati allarmanti: 40mila morti al mese, una media di circa 1300 al giorno a causa di massacri, fame e malattie, senza considerare i gravi danni psicologici e sociali arrecati alle comunità di profughi che crescono con l”andare dei giorni (Pablo Trincia – PeaceReporter).


Una crisi, quella che ha colpito il cuore del continente africano, a cui l”Onu per primo non riesce a far fronte, nonostante le ormai numerose dichiarazioni dei suoi osservatori e portavoce. Fino a pochi giorni fa spettava al Darfur, dilaniato ormai da due anni dalla guerra civile, l”etichetta di biggest, most neglected humanitarian emergency in the world today (la più grande e ignorata emergenza umanitaria del mondo attuale). Ma in settimana l”inviato speciale del Palazzo di Vetro, Jan Egeland, ha fatto sapere che alla regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo, l”Ituri, spetta il primato, con il triplo dei morti (circa mille) al giorno.
 
Darfur: le cifre aumentano. L”ultima stima degli osservatori internazionali nel Sudan occidentale è di 180mila morti, 200mila profughi e quasi due milioni di sfollati interni.

L”arrivo della stagione secca nella regione, un luogo in gran parte inospitale, minaccia inoltre le riserve alimentari della popolazione, che potrebbe essere colpita da nuove carestie. Mentre si susseguono gli appelli e le minacce di sanzioni da parte della comunità internazionale, il governo sudanese continua a negare categoricamente di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati.

Intervistato giorni fa da un giornalista dell”emittente statunitense Cnn, che gli ha mostrato alcune foto aeree di villaggi bruciati e distrutti, Khidir Haroun Ahmed, ambasciatore del Sudan a Washington ha risposto: Questa foto potrebbe essere stata scattata in qualsiasi parte del mondo. Non c”è nulla che possa provare che questo villaggio sia davvero in Sudan.
Ma in Darfur, molti membri delle organizzazioni internazionali e non-governative intervistati da PeaceReporter sostengono che il vero problema è la mancanza di sicurezza, che rallenta e ostacola gli aiuti alla popolazione civile.

Senza sicurezza tutto diventa più difficile, afferma Sally Austin, coordinatrice di Care International da Nyala, nel Darfur meridionale. Molti sfollati non possono uscire dai propri rifugi nei campi per procurarsi il cibo, senza rischiare di essere uccisi, picchiati o derubati dai janjaweed. Per noi è già un problema capire dove sistemare tutta la gente che ci viene a chiedere aiuto. Da febbraio arrivano tra le 200 e le 250 persone al giorno. Hanno perso tutto e chiedono cibo, qualche telo di plastica per ripararsi e dell”acqua. Tra di loro ci sono anche tanti contadini il cui raccolto è stato completamente distrutto.

L”emergenza e la guerra stanno inoltre producendo un”intera generazione di orfani bisognosi di assistenza psicologica per i traumi riportati dagli attacchi e dalle continue fughe.

Raccogliamo bambini di cinque o sei anni che hanno perso entrambi i genitori nelle scorribande dei janjaweed, dice Ahlam Mahdi Saleh, direttrice di un piccolo orfanotrofio di Nyala, che ora ospita una trentina di bambini. Non abbiamo abbastanza medicine, ma soprattutto ci manca qualcuno che faccia assistenza sociale. I bambini sono terrorizzati. Non appena sentono il rumore di un aereo cominciano a gridare e a piangere.

Mentre la meningite e la dissenteria mietono vittime tra i più deboli nei campi, c”è chi sostiene che con una maggiore copertura mediatica la situazione umanitaria non sarebbe poi così grave. Quando c”è stato lo tsunami la stampa mondiale si è mossa, lanciando appelli che hanno prodotto milioni di dollari nel giro di qualche giorno. Qui non è così, anche perché il governo impedisce ai giornalisti di raggiungere le aree più disastrate, dice il portavoce di un”organizzazione che vuole mantenere l”anonimato.

In settimana la Nigeria, il cui presidente Olosegun Obasanjo è il principale mediatore in terra africana nei colloqui di pace tra governo e ribelli, ha proposto di istituire un tribunale speciale che giudichi i crimini di guerra commessi in Darfur. Ma lo stallo politico continua.

Gli Stati Uniti si oppongono all”apertura di un fascicolo-Darfur da parte della Corte Penale Internazionale, di cui sono fieri oppositori. E la Cina non vuole applicare sanzioni contro il governo sudanese, con il quale ha accordi per l”estrazione del petrolio nel sud, dove il processo di pace muove i primi passi.

Ora l”Onu chiede un maggior dispiegamento di truppe dell”Unione Africana nella regione: gli appena duemila soldati dislocati su un territorio grande come la Francia non possono fare molto per proteggere la popolazione dagli attacchi dei janjaweed.

Ituri: lontano da tutto e tutti. Negli ultimi mesi la situazione umanitaria della regione congolese si è aggravata ulteriormente, scalzando, come si è detto, il Darfur nella lista nera delle crisi dimenticate. Mille morti al giorno sono un numero che Jan Egeland ha recentemente definito il più alto nel mondo, aggiungendo che tre milioni di persone hanno bisogno di assistenza immediata per scongiurare una carestia di dimensioni bibliche.

Il recente massacro di nove caschi blu bengalesi nel villaggio di Kakwa, nei pressi di Bunia, da parte di un gruppo di miliziani attivi nella zona e la successiva rappresaglia da parte dei peacekeepers hanno riportato, anche se per poco, l”attenzione sul dramma che la popolazione civile di questa regione vive ormai dal 1999. Diversi gruppi armati si sono scontrati da allora in Ituri e due di questi, L”Upc e l”Fni, continuano a massacrarsi, colpendo ripetutamente la popolazione civile.

La questione etnica c”è – nei due gruppi militano rappresentanti delle tribù Hema e Lendu, a lungo acerrime rivali – ma quella politica (il coinvolgimento delle vicine Uganda e Ruanda) ed economica (lo sfruttamento delle risorse) sono preponderanti. Entrambi i gruppi si sono macchiati di atrocità di ogni tipo e la loro presenza costringe alla fuga la popolazione, che si ammassa nei campi sfollati.

Il problema è che lo stato non è mai intervenuto e questo ha fatto sì che tra le comunità Hema e Lendu si creassero piccoli staterelli autonomi con un proprio esercito, afferma da Bunia Sonia Bakari, che lavora ad alcune inchieste speciali per i massacri sulla popolazione civile in Ituri per conto delle Nazioni Unite. Le milizie sopravvivono anche riscuotendo dazi e tasse nei villaggi, oltre a commettere numerose violazioni dei diritti umani. Negli ultimi giorni 260 dei loro membri sono stati arrestati, tra cui anche alcuni capi. Ma i campi profughi restano pieni di persone bisognose. La comunità internazionale ha appena cominciato a muoversi per loro, bisognerà attendere.
 
Pablo Trincia

Be the first to comment on "L’inferno nel cuore dell’Africa"

Leave a comment