Profit o non profit? Un dilemma per la responsabilità sociale d’impresa

Recenti fatti di cronaca dimostrano come la tanto sbandierata “responsabilità sociale d'impresa” non rappresenti altro, per molte aziende, che una mera operazione di marketing. Basti pensare al caso della Conad, i cui amministratori sono finiti in manette per bancarotta fraudolenta, pur redigendo da anni un bilancio di responsabilità sociale. Su questo tema, e sul rapporto tra imprese profit e non-profit, pubblichiamo l'intervento di Andrea Saroldi, ricercatore e scrittore torinese, autore di diversi libri e pubblicazioni sulla promozione dell'economia solidale.


A mio parere, quando si affronta il tema della responsabilità civile d'impresa, è importante ricordare che ci muoviamo nella prospettiva di modificare il comportamento di imprese “for-profit” aggiungendo dei vincoli di “buona condotta”; ben diversa è la prospettiva dell'economia solidale che vuole invece sviluppare imprese che non hanno la remunerazione del capitale investito come loro elemento costitutivo. A questo proposito trovo utile il libro di Razeto “Le imprese alternative” (Ed. EMI). Razeto identifica quali sono i fattori necessari ad un'impresa (forza lavoro, tecnologia, mezzi di lavoro, fattore finanziario, fattore gestionale) e pone come questione principale per analizzare un tipo di impresa quale sia il fattore che predomina, ovvero quello che orienta le scelte. Il problema, per come lo vedo io, sorge quando il capitale (fattore finanziario) è quello che predomina, quello in base al quale vengono prese le decisioni, come avviene normalmente nelle SpA che sono aziende create per fornire utili agli azionisti.

La cosa è sostanzialmente diversa quando è il fattore lavoro che predomina. O ancora meglio, un insieme di fattori tra cui il lavoro, le esigenze della comunità locale, i bisogni dei consumatori, etc. (approccio “multi-stakeholder”). Nel mio ideale l'impresa dell'economia solidale nasce per soddisfare le esigenze di chi lavora e di chi utilizza i suoi prodotti e servizi, ed il capitale è solo uno strumento. Esistono migliaia di cooperative, io non le conosco tutte, ci saranno anche un sacco di contraddizioni e di limiti, ma quando una cooperativa funziona si pone proprio in questa prospettiva.

Quando ho scritto il libro “Costruire economie solidali” (Ed. EMI), l'esempio migliore che ho trovato per spiegare questo concetto è il gruppo basco di Mondragon: “un gruppo che oggi conta 160 cooperative, 60'000 lavoratori e 23 impianti di produzione all'estero. Nel 2001 le vendite del gruppo corrispondono a 8'100 milioni di Euro, con una crescita del 15% rispetto all'anno precedente. Il gruppo opera nei campi della distribuzione e dell'industria: componenti, edilizia, impianti ed elettrodomestici; comprende anche un centro di ricerca e sostiene l'università di Mondragà³n.

Le cooperative del gruppo MCC basano la loro attività su dieci principi:1. Ammissione aperta2. Organizzazione democratica3. Sovranità del lavoro4. Natura strumentale e subordinata del capitale5. Gestione partecipativa6. Pagamento di solidarietà 7. Intercooperazione8. Trasformazione sociale9. Universalità 10. Educazione

Considerare il capitale come un mezzo strumentale porta a fissare un limite alla sua remunerazione. In questo modo gli utili della attività vengono utilizzati per finanziare un fondo di educazione e promozione sociale e per sostenere gli investimenti della cooperativa e lo sviluppo del sistema; una parte degli utili viene inoltre suddivisa tra i soci-lavoratori. Anche se il caso andrebbe analizzato meglio, si tratta di un esempio di come la logica d'impresa possa contenere al suo interno principi di cooperazione, sviluppo locale, formazione, partecipazione ed utilizzo strumentale del capitale.”

Oppure si potrebbe parlare delle fabbriche “recuperate” argentine o di molte altre cooperative. Mia moglie, ad esempio, lavora in una cooperativa impostata in questo modo.

Insomma, credo che abbia senso chiedersi quali sono gli strumenti imprenditoriali che abbiamo a disposizione e preferire quelli più utili allo scopo che abbiamo in mente. In questo senso mi sembra più efficace un'impresa che abbia nel suo codice genetico la predominanza dei fattori lavoro, costruita su processi di democrazia interna e per soddisfare le esigenze della propria comunità , piuttosto che inserire dei “vincoli aggiuntivi” ad un meccanismo nato per produrre reddito.

Penso che la responsabilità sociale di impresa possa essere utile, ma credo anche che ci voglia ben altro. Benvengano quindi le imprese “for profit” che adottano codici e regole aggiuntivi, ma non facciamo un calderone unico tra economia solidale e responsabilità sociale di impresa. Dico questo perché spesso ascolto dei discorsi che vanno proprio in questa direzione. Sono discorsi che iniziano dicendo che ci sono imprese for-profit che fanno delle belle cose e ci sono anche imprese non-profit che fanno delle cose cattive, per concludere che tra for-profit e non-profit non c'è nessuna differenza, basta fare delle cose buone. Secondo me invece il motivo per cui un'impresa nasce, il modo in cui funziona e prende le sue decisioni sono fattori per nulla secondari.

Andrea Saroldi

www.retegas.orgwww.retecosol.org

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