Un nuovo paradigma antiebraico?

La Menorah, il candelabro sacroIn un recente articolo su Il Foglio (6/11/04) dal titolo “Il nuovo paradigma antiebraico”, Michele Battini, storico dell'Università `di Pisa, sostiene che il vecchio paradigma di antiebraismo, quello originato dal pregiudizio antiebraico della religione cristiana, è ormai superato, ed stato sostituito da un nuovo paradigma che non ha più radici religiose, ma piuttosto politiche. Il suo fondamento è l'antiamericanismo, un antiamericanismo che poi sfocia in antisionismo e quindi in vero e proprio antiebraismo o antisemitismo. I due termini nell'articolo appaiono sinonimi (Giorgio Gallo).


Non starò qui a discutere la prima parte della tesi, su cui si può in gran parte convenire, àˆ certo che l'antiebraismo classico di matrice cristiana è ormai superato, anche se forse troppo ottimista appare la conclusione secondo cui si potrebbe oggi pensare a ebrei e cristiani come un «unico popolo di Dio», sebbene distinto in due comunità di fede.

Vorrei piuttosto soffermarmi sulla tesi secondo cui sarebbe l'antiamericanismo l'unica o la principale radice dell'antiebraismo attualmente esistente nell'occidente, e sulla sostanziale identità o almeno forte contiguità fra antisionismo ed antiebraismo che appare nel discorso di Battini.

Ma prima mi sembra necessario sintetizzare il ragionamento sviluppato da Battini:
a. Nell'Europa sovietica il passaggio “antiamericanismo – antisionismo – antisemitismo” avviene subito dopo la prima guerra fra israeliani ed arabi, quella del 1948-49. Negli anni seguenti l'antiamericanismo ha prodotto non solo l'avversione ad Israele ma ha anche resuscitato il vecchio e tradizionale antisemitismo dell'Europa orientale.
b. Diverso è il caso della sinistra comunista occidentale che passa nel 1967 da un sostanziale simpatia verso Israele ad una atteggiamento antiisraeliano ed antisionista, atteggiamento che slitta poi in «molti militanti comunisti in autentico antiebraismo». Quindi anche qui partendo dall'antiamericanismo si arriva all'antisemitismo.
c. Ancora diverso è il caso del mondo arabo dove da l'ostilità iniziale sarebbe stata priva di componenti antisemitiche, una avversione non «segnata da motivi religiosi, ma eminentemente pratici (diritti di pascolo, proprietà della terra, controllo delle acque)». A un certo punto questa avversione assume connotazioni antisemite e si collega a simpatie verso il nazismo (Battini non spiega attraverso quali processi). In tempi più recenti questo antiebraismo acquista connotazioni più politiche: antiimperialismo, polemica contro il segregazionismo «razzista» israeliano, …
d. La conclusione di Battini è che chi «spiega i ricorsi dell'antisemitismo con cause oggettive […] coglie magari il contesto di un fenomeno, ma rischia di equivocarne la natura, che è quella di una tradizione che riemerge». Il nuovo antiebraismo sarebbe la «manifestazione dell'ostilità verso una entità che si immagina capace di tenere in mano le redini del mondo. C'è in giro un nuovo complotto immaginario – Israele e gli americani, braccio armato del sionismo – che può rinnovare i fasti della tradizione antisemita e del complotto ebraico, [… pretendendo] di spiegare con disarmante semplicità una storia, quella che noi tutti viviamo oggi, complicata da capire e interpretare».

Cercherò di sviluppare nel seguito alcune brevi considerazioni partendo proprio dall'ultimo punto.

1. Ha certamente ragione Battini quando afferma che in una parte della sinistra c'e' una tendenza all'ipersemplificazione che va in due direzioni, diverse nell'argomentazione, anche se concordi nel risultato finale. La prima, meno frequente a mio avviso, è quella denunciata da Battini di una sorta di complotto in cui l'America sarebbe il braccio armato del sionismo. Nella seconda, a mio avviso invece più frequente, i rapporti si invertono: è Israele ad essere avamposto e strumento dell'imperialismo e del colonialismo prima, e ora dell'impero americano. C'è però qui qualcosa di più della semplificazione di una realtà complessa; c'è il non volere (o non sapere) riconoscere le peculiarità e specificità di un conflitto come quello israelo-palestinese. Immergendolo in un contesto più ampio si finisce per negare le ragioni dei due popoli, la loro soggettività , la loro autonomia. Ma paradossalmente, nel denunciare l'ipersemplificazione, Battini fa una operazione di non minore ipersemplificazione, e la dichiara programmaticamente quando rifiuta l'idea stessa di analizzare le «cause oggettive» del fenomeno di cui parla. Qui vorrei fare una considerazione di ordine generale, anche se necessariamente schematica: non è possibile capire un fenomeno senza fare riferimento contemporaneamente a paradigmi interpretativi (ideologie, visioni del mondo, modelli, …) e a fatti e cause oggettive; senza i secondi i primi risultano evanescenti e poco riescono a spiegare, mentre senza i primi i secondi risultano inintelligibili. E nell'analisi di Battini sono proprio questi ultimi che mancano. Le «cause oggettive» non compaiono mai nel suo scritto, come sostanzialmente non compare mai il popolo palestinese. Così facendo questo gioco di slittamenti successivi fra antiamericanismo, antisionismo, antiebraismo ed antisemitismo non acquista sostanza; rimane abbastanza poco comprensibile, se non facendo riferimento all'idea di una «tradizione che riemerge», un sorta di mostro che, in certe situazioni (quali?) può essere evocato e rinascere in nuove forme. Mentre il gioco, ad esempio, può riuscire con l'Europa orientale dove l'antisemitismo ha una lunga storia, riesce meno con la sinistra comunista italiana. Perché mai l'atteggiamento della sinistra italiana è cambiato nel 1967? àˆ cambiato forse il livello di antiamericanismo? O non ci sono altre rilevanti cause o almeno concause? Ma forse bisognerebbe andare un po' più in là . Ha senso usare un concetto abbastanza evanescente come l'antiamericanismo, più adatto alle polemiche politiche alla Ferrara, come fondamento di una analisi che ha pretese scientifiche? Non andrebbe prima definito, analizzato nelle sue specificità ? Esiste un unico antiamericanismo, o non ce ne sono piuttosto tanti, ciascuno con le sue specifiche caratteristiche, le sue motivazioni e le sue manifestazioni?

2. In realtà ci sono motivi di fondo, connessi alla stessa nascita del sionismo, che rendono difficile per la sinistra marxista o comunque socialista occidentale accettarlo. Si tratta di ragioni che sono bene espresse da Zeev Sternhell (The Founding Miths of Israel, Princeton, 1998) quando individua le origini del sionismo nel nazionalismo “tribale o organico” sviluppatosi in Europa alla fine del diciannovesimo secolo in contrapposizione al nazionalismo di stampo liberale (Le citazioni riportate nel seguito sono prese dalla versione inglese del libro di Sternhell e da me tradotte). Questo «nuovo nazionalismo era un nazionalismo di “sangue e terra”, un nazionalismo culturale, storico ed alla fine biologico» (p.10). «Fu questo il contesto storico ed intellettuale in cui ebbe origine il moderno movimento nazionale ebreo. Il nazionalismo organico è molto più rilevante per la sua storia di quanto non lo sia il movimento socialista rivoluzionario. Il sionismo è nato in un mondo di nazionalità violente e vocianti, un mondo privo di tolleranza nazionale o religiosa, un mondo in cui la distinzione tra religione e nazione, o fra religione, società e stato era sconosciuta e forse inconcepibile» (p. 11). Non è un caso che, parlando del sionismo, Sternhell usa il termine “socialismo nazionalista”, intendendo un socialismo interclassista versato alla causa nazionale, un socialismo che «perde il la propria valenza universale e diventa strumento essenziale del processo di costruzione dello stato nazione» (p. 7). «Il Sionismo che Ben Gurion descriveva come una “totalità ” era una versione ebraica del nazionalismo integrale europeo» (p. 232). Da questo punto di vista le concezioni sioniste erano in radicale contrapposizione a quelle della sinistra socialista: «Il socialismo – osserva sempre Sternhell – sia del tipo marxista ortodosso che del tipo socialdemocratico abborriva il nazionalismo tribale che stava cominciando a dominare in tutta l'Europa» (p.28). Certamente quello di cui parla Sternhell non è tutto il sionismo, ma ne è la componente più rilevante e storicamente predominante. Ci sono altre componenti nel sionismo; ricordiamo brevemente ad esempio la nascita negli anni '20 del secolo scorso di Brit Shalom, minoritario politicamente ma ricco intellettualmente (a Brit Shalom hanno partecipato tra gli altri Martin Buber e Gershom Scholem), che sosteneva l'idea di uno stato binazionale in contrapposizione a quella di uno stato ebraico. Ancora oggi nella sinistra israeliana sono presenti, ancorché molto minoritarie, posizioni che chiedono uno stato secolare, in cui i diritti non siano legati ad elementi religiosi o etnici.

3. Alla luce di quanto detto non è strano che ci sia una sostanziale contraddizione di tipo ideologico fra sionismo e sinistra marxista. Semmai c'è da chiedersi perché questo contrasto si faccia esplicito solo così tardi, nel 1967. Certo la guerra dei sei giorni, forse la prima guerra preventiva (non entriamo qui nel problema delle responsabilità di questa guerra, argomento certamente complesso), crea una situazione oggettivamente poco accettabile alla cultura politica della sinistra. Un territorio densamente popolato viene occupato militarmente ed inizia immediatamente una politica di annessione, in certi casi esplicita (Gerusalemme ed un'ampia area intorno alla città ) in parte “strisciante” (di annessionismo strisciante parla Benny Morris in “Vittime – Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001”, a pag. 427 dell'edizione italiana). L'annessione riguarda la terra, non la popolazione che si trova sostanzialmente in una situazione di occupazione coloniale. A parte i problemi di legittimità internazionale, come avrebbe potuto una sinistra tradizionalmente solidale con i movimenti di liberazione nella fase storica di decolonizzazione, che aveva avuto il suo picco proprio pochi anni prima, non prendere posizione? Ed era facile distinguere tra sionismo e politica del governo israeliano? Battini insiste molto su questa distinzione. Certamente è necessario fare questa distinzione, ma la cosa non è sempre facile, e non lo è neppure per diversi storici e scienziati politici israeliani (anche loro antisionisti per antiamericanismo?). àˆ sempre Sternhell, ad esempio, che afferma a questo proposito: «Il ruolo di occupante, che Israele cominciò a giocare solo pochi mesi dopo la luminosa vittoria del giugno 1967, fu non il risultato di calcoli sbagliati da parte dei governanti di quel periodo né il risultato di una combinazione di circostanze, ma un'altro passo nella realizzazione delle principali ambizioni del sionismo» (p. 330).

4. Forse la sinistra avrebbe potuto prendere le distanza dal sionismo ben prima, ma qui c'e' il problema della difficoltà di superare alcuni miti creati intorno alla guerra del 1948-49, e di un certo ritardo della storiografia sull'argomento. Uno di questi miti, che viene richiamato dallo stesso Battini, è quello secondo cui l'aggressione della lega araba, con cui iniziò la guerra, venne sconfitta a fatica. àˆ evidente che la sinistra, uscita da poco da una guerra contro il nazifascismo e sgomenta per l'orrore dell'Olocausto non potesse che trepidare per la sorte del neonato stato ebraico aggredito da forze apparentemente soverchianti. In realtà la situazione sul campo era ben diversa, come ben ha documentato Benny Morris (p. 274 e seguenti di Vittime): nel giugno 1948 l'esercito israeliano disponeva di 42.000 combattenti bene armati, e soprattutto fortemente motivati, che sarebbero diventati 65.000 a luglio e 115.000 nella successiva primavera (oltre ad una piccola ma efficiente industria militare). I paesi arabi disponevano in Palestina e nel Sinai di circa 40.000 uomini a metà luglio, che sarebbero saliti a 55.000 in ottobre. Le forze arabe, oltre che a mancanza di coordinamento e spesso di motivazione, soffrivano di carenze di armi, munizioni e pezzi di ricambio. Va ricordato poi che la guerra era iniziata prima della aggressione della lega araba, ed aveva avuto come attori da un lato l'Haganah, la forza armata dell'yishuv, oltre a l'Irgun e l'LHI, e dall'altra forze irregolari arabe molto poco coordinate fra di loro. Non è un caso che, ad esempio, una significativa parte dei 369 villaggi palestinesi distrutti dalle forze sioniste, e censiti da Benny Morris in quello che è il suo contributo fondamentale alla storia del conflitto israelo-palestinese (“The birth of the Palestinian refugee problem, 1947-1949”, Cambridge 1987, pag. xiv), lo siano stati prima dell'aggressione della lega araba.

5. E qui entra in gioco il popolo palestinese, quasi completamente assente nel discorso sviluppato da Battini. I nazionalisti arabo-palestinesi vi compaiono solo con riferimento al fatto che la loro avversione al sionismo era motivata da fatti eminentemente pratici, quali dispute per le acque, la proprietà delle terre ed i pascoli. Una sorta di 'derubricazione' delle motivazioni del conflitto. La situazione era invece ben più complessa: apparì chiaro sin dall'inizio ai palestinesi l'intento colonizzatore degli insediamenti ebraici. Come osserva sempre Morris in Vittime, «Già negli anni '80 c'erano arabi che capivano che il pericolo sionista non era una mera questione locale, o un effetto collaterale della diversità culturale» (p. 65) e continua: «Pur essendo ancora una sparuta minoranza, gli abitanti degli insediamenti impararono presto a comportarsi da signori e padroni, pronti in certi casi a ricorrere alla forza di fronte alla minima provocazione. Questa fu una causa importante del risentimento arabo» (p. 66). C'è purtroppo un filo fra questi atteggiamenti risalenti alla fine dell'800 e la situazione attuale che la giornalista israeliana, corrispondente di Haaretz in Cisgiordania, Amira Hass descriveva pochi giorni fa come «una realtà di apartheid e di colonialismo» (Internazionale, 12 novembre 2004). E termini come apartheid e pulizia etnica si ritrovano nei documenti di B'Tselem, una prestigiosa e seria organizzazione per i diritti umani israeliana, non certamente sospetta di antiebraismo, e che annovera sionisti fra i suoi dirigenti. Questo ovviamente non giustifica la definizione semplicistica di Israele come stato razzista che a volte si trova nelle affermazioni di una certa sinistra, ma mette in evidenza le profonde ambiguità che segnano Israele e che sono, non meno dell'antiamericanismo, all'origine di una avversione che poi rischia di sfociare nell'antiebraismo. Comunque anche qui il discorso è molto complesso e certamente non può essere affrontato in modo semplicistico e parziale come fa Battini.

6. Vorrei concludere con alcune osservazioni di ordine generale. Il problema del conflitto israelo-palestinese, dello stato ebraico e della sua nascita ed esistenza è molto complesso e ciò di cui proprio non c'è bisogno sono le facili semplificazioni. Lo dico ben rendendomi conto che in queste brevi considerazioni io stesso ho dovuto ricorrere a semplificazioni. Chi nella sinistra prova simpatia per Israele e riconosce l'essenziale contributo dato dal popolo ebraico alla nostra cultura occidentale e la legittimità delle sue aspirazioni nazionali deve affermare con forza il diritto all'esistenza di Israele, in condizioni di sicurezza e pace, e deve impegnarsi perché questo diritto venga riconosciuto e si realizzi. Deve però anche essere cosciente che ciò non potrà avvenire se non contestualmente al riconoscimento dei diritti della popolazione palestinese. Per questo credo sia importante partire dal riconoscimento della profonda ingiustizia storica che il popolo palestinese ha subito con la nascita di Israele. Penso si possa convenire con le parole di David J. Goldberg, rabbino e storico del sionismo: «Analizzando il corso del conflitto arabo-sionista, il più spassionato giudizio morale con cui si può convenire è che si sia trattato di un tragico dilemma di una necessità ebraica contro un diritto palestinese; essendo impossibile una giusta soluzione, solo la più generosa restituzione agli spossessati potrebbe cominciare a compensare per l'ingiustizia fatta loro» (“To the promised land – A history of zionist thought”, London 1996, p. 247). àˆ solo partendo da uno sforzo di analizzare le origini storiche del conflitto da un lato e dalla capacità di ascolto e comprensione delle aspirazioni, del sentire e delle soggettività di tutte le parti in causa che si può costruire la pace.

Giorgio Gallo

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“And the work of Righteousness shall be Peace” (Is. 32, 17)

Giorgio Gallo
Centro Interdipartimentale “Scienze per la Pace”
Università di Pisa
http://www.cisp.unipi.it

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