Industria bellica "made in Africa", un business che rende

Quando si parla di traffici di armi in Africa, spesso si pensa a un movimento a senso unico: da nord a sud, dall”Europa e Stati Uniti al continente africano. Questa direzione è certamente prevalente, ma non offre un quadro esatto della situazione. Non tiene conto infatti dei movimenti sud-sud e di quelli da sud a nord. La cosiddetta globalizzazione riguarda anche l”industria militare.

Fonte: NIGRIZIA


Con la fine della guerra fredda si è assistito a una ristrutturazione delle capacità produttive belliche a livello mondiale. Diverse aziende sono scomparse, spesso inglobate in colossi multinazionali degli armamenti, quali, ad esempio, le americane Lockheed Martin e Boeing, la britannica Bae, e l”europea Eads. I paesi che avevano cercato di dotarsi di un”industria bellica indipendente (come la Svezia) devono ora accettare che ampi settori del proprio parco industriale siano controllati da colossi stranieri. I costi di ricerca e di produzione rimangono infatti proibitivi, mentre il mercato ha subito una contrazione. In questo contesto vi sono però produzioni residuali che, anche grazie al basso costo della manodopera, vedono protagoniste le industrie dei paesi del sud del mondo. Ci si riferisce in particolare alla produzione di armi leggere e relative munizioni, settore nel quale i fabbricanti occidentali incontrano una concorrenza crescente da parte di aziende di altri continenti. In Africa, la diffusione di armi leggere è una ben nota piaga che contribuisce all”instabilità di ampie aree. Oltre alle armi provenienti da altre parti del mondo (soprattutto, ma non esclusivamente, dall”Europa dell”Est), si sta affermando una produzione locale che potrebbe avere nel tempo sviluppi inquietanti. Tra i paesi africani produttori di armi vi sono Sudafrica, Zimbabwe, Nigeria, Namibia, Uganda, Kenya e Tanzania. A questi va aggiunto l”Egitto che pure vanta diversi interessi nell”Africa subsahariana. Su tutti si staglia il Sudafrica, grazie al proprio peso geopolitico, economico e finanziario, oltre che per una buona base industriale e scientifico-tecnologica che, in alcuni casi, tocca livelli di eccellenza. L”industria militare sudafricana è un”eredità del regime dell”apartheid. Di fronte all”embargo sulla vendita di armamenti a Pretoria, decretato dalle Nazioni Unite (facoltativo dal 1963, obbligatorio dal 1977), i dirigenti boeri decisero infatti di rendere il paese il più possibile indipendente dai fornitori stranieri. In realtà , diverse nazioni aiutarono Pretoria fornendo sistemi e tecnologie, oppure guardando dall”altra parte quando i tecnici sudafricani copiavano senza licenza alcuni brevetti stranieri. Francia e Italia fornirono regolari licenze per la produzione di diversi armamenti, poi sviluppati localmente. Alcuni settori dei servizi segreti americani e inglesi avevano creato apposite società di copertura per far giungere in modo occulto tecnologie sofisticate al regime dell”apartheid. Un discorso a parte merita Israele: dagli anni “70 aveva avviato un”importante partnership strategica con Pretoria nel settore militare e dell”intelligence, tanto che i due paesi misero a punto congiuntamente diversi sistemi di armamento anche molto sofisticati. Dopo la fine dell”apartheid, le relazioni tra i due paesi si sono raffreddate, ma esiste ancora almeno un accordo per la spartizione del mercato mondiale del Derby, un missile aria-aria a guida radar, frutto di una ricerca comune. Per esempio, in Cile l”arma è commercializzata dagli israeliani in Brasile è la Kentron sudafricana che propone la propria versione chiamata R-Darter. Con la fine del regime razzista, la creazione del nuovo Sudafrica e l”avvento al potere dell”African National Congress (Anc) di Nelson Mandela (1994), si pose subito il problema di come gestire l”industria militare. Il nuovo governo si è dovuto confrontare con il complesso militare-industriale ereditato dal passato regime. Si decise di mantenere la base industriale (anche se sottoposta a pesanti tagli strutturali e occupazionali), abbandonando però ogni ambizione di raggiungere la completa autosufficienza che, dopo la fine dell”embargo Onu, non aveva più alcun senso. La strategia seguita è quella di concentrare la produzione in alcuni settori di nicchia, dagli aerei senza pilota (Uav) ad alcuni modelli di missile, dai veicoli corazzati su ruote all”artiglieria, nei quali l”industria sudafricana aveva sviluppato una notevole competenza. Parallelamente viene avviato un programma di riarmo delle forze armate nazionali, che prevede l”acquisto di aerei, elicotteri e navi di origine britannica, svedese, tedesca e italiana.
Le aziende sudafricane sono coinvolte nel programma in qualità di subfornitori e alcune di queste sono state comprate dai colossi europei. In questo modo il paese mantiene la sua base tecnologica e si apre al mercato mondiale della difesa. Questo comporta non solo importazioni, ma anche esportazioni, che sono giudicate vitali, vista la contrazione del bilancio della Difesa di Pretoria. Già alla fine del 1995 fonti americane collocavano il Sudafrica al dodicesimo posto tra i 20 maggiori esportatori di armamenti, e si calcola che le compagnie sudafricane controllino tra l”uno e il due per cento del mercato mondiale. Secondo i dati ufficiali, il paese esporta prodotti bellici in 61 paesi diversi, anche se le aree privilegiate sono il Medio Oriente e l”Africa. Il maggior cliente è l”Algeria, nonostante questo paese non sia ancora uscito da un conflitto interno che dura dall”inizio degli anni novanta e nel quale le forze di sicurezza, impegnate contro il terrorismo di matrice islamista, sono accusate di atrocità e massacri contro i civili. Il Sudafrica ha di recente raggiunto un”intesa per la ricerca congiunta in campo tecnologico militare con Brasile e India, e ha in corso contatti per rilevare la stagnante industria militare nigeriana. Proprio la Nigeria è un altro produttore di armi in Africa, anche se molto più piccolo e tecnologicamente assai arretrato rispetto al Sudafrica. La Defence Industries Corporation of Nigeria (Dicon) è stata creata nel 1964 e impiega circa 700 persone nello stabilimento di Kaduna dove sono prodotte armi leggere e munizioni, mentre nella fabbrica di Bauchi sono realizzati veicoli corazzati leggeri. Ben più importante risulta la produzione militare dello Zimbabwe che, come il Sudafrica, ha ereditato dal passato regime il nucleo originale dell”attuale industria bellica, divenuta nel 1984 la Zimbabwe Defence Industries (Zdi). Questa azienda produce armi leggere, munizioni e mine. Il know how per la produzione di esplosivi e mortai è stato fornito dalla Francia, mentre la Cina ha costruito una fabbrica di munizioni per armi da fanteria. Tra i clienti dalla Zdi vi sono l”Angola, i ribelli sudanesi e la Repubblica democratica del Congo. In Congo, dove le truppe di Mugabe sostengono il presidente Joseph Kabila, in cambio delle forniture della Zdi, Harare è riuscita a ottenere la concessione del 37,5 % delle azioni di Gecamines, l”azienda mineraria di stato del Congo. Lo Zimbabwe, infine, cerca nuovi partner per la produzione di armamenti. Prima della fine della guerra in Angola, erano in corso colloqui tra Luanda e Harare per costruire nel paese lusofono uno stabilimento comune per la realizzazione di armamenti. Con la fine della guerra, però, il governo angolano sembra aver perso interesse all”impresa. Anche l”Uganda ha creato un nucleo di industria bellica. In questo paese vi sono almeno tre fabbriche di armi. La più grande, Nakasongola Arms Factory, è di proprietà cinese (una joint venture tra il governo di Pechino e alcuni tecnici e imprenditori di origine cinese, nord coreana e sudafricana). Questo stabilimento si trova nella regione di Gulu (dove imperversa i ribelli dell”Esercito di Resistenza del Signore – Lra), produce armi leggere e mine, e ha tra i clienti l”esercito del Burundi. Vi è poi la Saracen che rifornisce l”esercito ugandese, e il cui proprietario è la Strategic Resources Corporation, una sigla dietro la quale si nasconde la famosa Executive Outcomes (EO), la compagnia militare privata sudafricana che ha cessato ufficialmente le attività alla fine del 1999, ma che si sospetta agisca dietro sigle più discrete. Vi è infine la Ottoman Engineering Ltd, specializzata nelle armi leggere. In Kenya, la Kenya Ordinance Factories Corporation produce munizioni per pistole e fucili d”assalto (20-60mila al giorno). La fabbrica è stata costruita con il concorso della Fn belga ed è stata inaugurata nel 2000. Il governo di Nairobi afferma che la sua produzione è destinata solo alle locali forze armate e che non intende concedere licenze di esportazione. Questo rapido giro d”orizzonte ci consente di cogliere che anche nel continente africano si stanno affermando, sia pure a fatica, una serie di piccoli complessi militari-industriali, spesso legati a circoli di affari poco limpidi (quando non malavitosi) che prosperano sull”instabilità cronica del continente. Le produzioni belliche africane, oltre a livello locale, possono trovare sbocchi anche in altri continenti (un carico di proiettili da mortaio fabbricati nello Zimbabwe è finito in mano alle Tigri Tamil dello Sri Lanka) e rappresentare un”ulteriore fonte di destabilizzazione globale.

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