Le elezioni presidenziali confermano la cecità dei politici. Senza fiducia nei partiti, gli argentini sopravvivono alla crisi economica mobilitandosi. Assemblee di quartiere e fabbriche autogestite confermano che i movimenti sociali non si sono dissolti.
E il futuro della democrazia è nelle loro mani.
di Paola Erba
da Buenos Aires
Il 18 maggio l’Argentina è andata alle urne per eleggere il presidente. A un anno e mezzo dai tumulti del dicembre 2001, quando il paese sembrava sull’orlo di una rivoluzione, sono tornati in scena i politici di sempre.
Carlos Menem, additato come il maggior responsabile dell’attuale crisi, dopo un periodo di ‘esilio’ dorato in Cile [patria della moglie, ex miss Cile e amica di Pinochet], si è addirittura candidato alle elezioni. Ed è arrivato al ballottaggio. Nestor Kirchner, il nuovo presidente, benché rappresenti la versione più progressista e sensata del peronismo, di nuovo ha ben poco: è uomo di Duhalde [suo predecessore], vincolato all’apparato di potere tradizionale e alla polizia. Il suo programma, anche se insiste su bisogni condivisi dalla società argentina [interventi statali su salute, educazione e pensioni e riattivazione dell’industria nazionale], deve ancora fare i conti con i nuovi accordi con il Fmi, che nei prossimi mesi imporranno ulteriori ristrettezze alla popolazione. Ma se la politica è quella di sempre, la società è cambiata. L’Argentina, negli ultimi anni si è drammaticamente impoverita: se nel 1975, su 22 milioni di abitanti, i poveri erano solo 1.200.000, oggi, su 36 milioni, i poveri sono 10 milioni e gli indigenti 11. Senza contare che ad aggravare la situazione ci penseranno i prossimi ritocchi dei prezzi di acqua, gas, luce, telefono [servizi ‘svenduti’ durante e dopo il governo Menem e oggi in mano a multinazionali straniere]. àˆ difficile credere a cifre del genere in un paese che con le sue esportazioni di grano sfama 300 milioni di persone [non argentine]. Tra i paradossi ci sta anche questo: in un quadro così drammatico, l’anno scorso, 2.800 milioni di dollari hanno sussidiato le banche. E non si è fermata la fuga di capitali: nel 2002 sono usciti dall’Argentina 16mila milioni di dollari. Mentre il debito pubblico è passato da 145mila milioni di dollari a 175. Di questo, circa 27mila milioni sono legati alle diverse modalità con cui si sono salvate le banche. L’abbandono -pur condiviso da tutti- della parità peso-dollaro [oggi un dollaro vale tre pesos] non sembra quindi aver portato mutamenti positivi. Fatta eccezione per una debole riattivazione economica nel turismo, nei settori legati all’esportazione [ora favoriti dal basso valore del peso] e nella produzione in loco di beni che oggi è troppo costoso importare. «La svalutazione era necessaria -spiega Claudio Lozano, economista del sindacato della Cta [Central trabajadores argentinos]- ma andava fatta con una serie di misure che tutelassero i settori più deboli».
Si può uscire dalla crisi?
«Senza cambi copernicani nella politica, -continua Lozano- è impossibile. àˆ dalla politica che bisogna partire per imporre regole all’economia, e finirla di privilegiare banche e pochi impresari, soprattutto stranieri. Ci vuole, in primo luogo, una riforma fiscale forte, che permetta allo stato di investire in lavori pubblici, di finanziare iniziative produttive, di dare aiuti urgenti e veri ai settori impoveriti: non i miserevoli piani di disoccupazione di oggi, che non assicurano neanche la sopravvivenza. Il governo di Duhalde non è andato in questa direzione, né vi andrà il prossimo: per riforme di questo calibro occorre una volontà politica che non c’è. I politici oggi, tra l’altro, non hanno né la legittimità sociale, né la forza sufficiente per varare delle riforme strutturali».
La legittimità sociale, appunto: gli argentini sono andati alle urne, ma ormai nessuno si sente rappresentato dalla politica ufficiale. Né crede nelle istituzioni: tutti sono ladri e corrotti. E si vota per il male minore. Non è un caso che queste elezioni abbiano richiesto un secondo turno e che Menem e Kirchner siano andati al ballottaggio solo con il 24,4% e il 21,9% delle preferenze. Spiega Ricardo Sidicaro, analista politico e professore alla Universidad de Buenos Aires:«Nella società argentina di oggi ci sono enormi inquietudini che la politica non sa cogliere. àˆ rimasta indietro rispetto ad una società che chiede giustizia, istruzione, lavoro. I partiti sono molti, divisi e deboli: la sinistra, ma anche il peronismo che si è presentato alle elezioni frazionato, con tre candidati che esprimevano tutto e il contrario di tutto [dal liberismo selvaggio di Menem al populismo di Rodriguez Saà ]. Del resto, in Argentina, non c’è da fidarsi dei programmi politici: hanno più una dimensione ‘poetica’ che programmatica. Lo stesso peronismo è sempre stato più legato al carisma del leader che ai programmi. Quello che farà il nuovo presidente lo vedremo nella pratica: dagli alleati internazionali che sceglierà e da come riuscirà a dialogare con organismi come il Fmi».
La società si organizza
E intanto, la società argentina si è organizzata indipendentemente dalla politica: nel dicembre 2001 sono uscite allo scoperto nuove forze, anche se già molte [i movimenti dei disoccupati, ad esempio] esistevano già dalla metà degli anni ’90.
Chi sono? I piqueteros [i disoccupati diventati famosi per il corte de ruta, l’occupazione delle strade per protesta], i movimenti degli ahorristas [i risparmiatori colpiti dal blocco dei conti bancari], le assemblee popolari [le riunioni tra cittadini dello stesso quartiere], gli operai delle fabbriche ‘occupate’ [le imprese fatte funzionare direttamente dagli operai dopo l’abbandono dei proprietari]. Infine, le madri di Plaza de Mayo, che oltre a rivendicare giustizia per le vittime della dittatura, appoggiano tutti questi movimenti. Ciascuno ha smorzato i toni incandescenti degli inizi della protesta e si è organizzato meglio. Nell’ultimo anno, per esempio il movimento piquetero è cresciuto moltissimo. Oggi sono almeno 15 le organizzazioni maggiori, con un’infinità di sigle e posizioni disparate: alcuni si sono imposti come interlocutori costanti del governo [è il caso della Federaciòn tierra y vivienda] o presentano [il Polo obrero] candidati per il rinnovo del parlamento previsto quest’estate; ma c’è anche chi rifiuta il dialogo con la politica tradizionale e adotta forme di vita comunitaria o posizioni molto simili agli zapatisti messicani [il Mtd, Movimiento Sin Trabajo]. I piqueteros, oggi, non occupano solo le strade, ma organizzano mense gratuite e cooperative. Così le assemblee popolari, che non si riuniscono più nei parchi, ma hanno occupato locali pubblici o privati [banche, ad esempio] per farne spazio di discussione, e di accoglienza. Anche le fabbriche occupate offrono ritrovi per discussioni, iniziative o presidi sanitari. Oltre a produrre, organizzano corsi dove si insegna a lavorare. Queste esperienze, in Argentina, sono oltre 120 e sono la vera novità degli ultimi due anni. In mezzo ad un’economia a pezzi e senza sussidi statali, di solito riescono a funzionare con metà dei lavoratori e con una produttività del 30-50 per cento, rispetto al loro periodo migliore. Ci sono imprese in cui si guadagna più di prima, e altre in cui non si raggiungono i 600 pesos al mese [200 euro]. C’è chi ha potuto costituirsi in cooperativa e chi, non avendo ottenuto l’esproprio dallo stato, continua a presidiare la fabbrica dai pericoli di sloggio. In tutti i casi, però, i lavoratori non sono più solo operai o impiegati, ma hanno imparato a vendere e comprare le merci, a trovare i fornitori, a tenere la contabilità , a dirigere. E tutti portano a casa lo stesso stipendio. Per fronteggiare la crisi, insomma, la gente ha riscoperto l’ importanza di solidarizzare. àˆ in atto una riorganizzazione del territorio dal basso.
Tra l’altro, sono sempre più numerosi i legami tra piqueteros, madres de plaza de mayo, operai e assemblee popolari. Tutti cercano di dare assistenza laddove lo Stato non arriva. Tutte queste iniziative nascono intorno a un bisogno concreto, ma diventano inevitabilmente anche esperienze politiche. Le decisioni per assemblea, sono un elemento comune delle assemblee popolari, delle fabbriche recuperate, di molte organizzazioni di piqueteros. Sono forme di democrazia diretta, che tuttavia, non sono riuscite finora ad avere rappresentatività politica, né da sole, né con l’ aiuto dei partiti i sinistra. Per ammissione della stessa Patricia Walsh, candidata al primo turno per Izquierda Unida, «la sinistra non ha saputo raccogliere le inquietudini popolari nate dalla crisi».
«L’anno scorso, le aspettative in questi movimenti erano altissime – aggiunge Josè Seoane, sociologo del Clacso [Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales]-, ma nessuno di loro è stato in grado di produrre, ad un anno di distanza, una proposta politica. Ma ci siamo sbagliati solo sui tempi. Questi movimenti resistono, e ancora più organizzati. Sarà questione di anni, ma se in futuro ci sarà uno spazio politico e democratico nuovo, al di fuori dei partiti tradizionali, verrà da loro».
Ritorno amaro
Gli argentini, figli di italiani, che scelgono di tornare in l’Italia non trovano il paese sognato.
di Andrea Purcel
L’attuale panorama sociale ed economico dell’Argentina è allarmante e secondo l’Ilo la disoccupazione è salita ormai al 23%, il tasso più alto del continente. Per le famiglie della classe media il colpo è stato particolarmente forte, e sono proprio loro ad avventurarsi in cerca di lavoro verso la terra da cui in passato si allontanarono i padri dei loro padri. La Direccion nacional de migraciones argentina indica che nel 1999 ci sono stati 8.000 emigrati mentre nel 2002 la cifra è salita ad 83.000, molti dei quali hanno raggiunto l’Italia, dove risiedono già 60mila argentini, per la maggior parte con una buona formazione culturale o professionale. Al Consolato italiano di Buenos Aires le richieste di cittadinanze italiane lo scorso anno sono triplicate; ma gli argentini non parlano di ‘emigrazione’ verso l’Italia bensì di ‘rimpatrio’. Tuttavia la burocrazia è complessa e secondo Argentina on line, l’Italia non ha accolto bene chi fugge dalla crisi. Per questo molti di loro si rivolgono a case di accoglienza per stranieri, vivono con parenti, amici o in bilocali sovraffollati. Jorge Sempio, ad esempio, arriva da Buenos Aires. Padre di due bambine, con studi in medicina e antenati di Vigevano, ha preparato tutti i documenti necessari prima di trasferirsi in Italia. Ma una volta arrivato, gli hanno chiesto un documento che accreditasse che suo nonno non rinunciò mai al diritto di essere italiano. «Ma quel documento – dice Jorge – non esiste, non ci sono modi per rinunciare alla nazionalità ».
Per i nipoti cresciuti tra le favole dell’Italia, l’impatto con la realtà è drammatico. «In Italia ho lavorato in nero – racconta Fernando Turrisi proveniente da Quilmes- perché quello si trova, il problema è che i padroni se ne approfittano e tu non hai nessuna chance di reclamare i tuoi diritti. Lasciare il mio paese è stata dura e finora mi è mancato tanto, ma nello stesso tempo sono felice di vedere il paese di mio nonno»
All’inizio di questo anno un’ordinanza del governo italiano ha ridotto un poco le difficoltà burocratiche per gli italo-argentini dando ai comuni italiani la possibilità di organizzare la documentazione di chi arriva e mettersi in contatto diretto con i consolati. Ma non mancano le accuse per la Legge Bossi-Fini che per il 2002 aveva fissato un tetto di arrivo di 4.000 persone, per quest’anno invece, nulla.
Corto latino
«Gli intellettuali stanno lanciando messaggi ogni giorno, gli artisti stanno tentando di risvegliare le coscienze, il problema è che sono voci nel deserto», afferma Alberto Di Giusto, scrittore argentino di origine italiana. Alcune di queste voci saranno presentate nella rassegna di cortometraggi argentini ‘Corto Latino’ a cura dell’associazione culturale ‘Viento del Sur’ copromossa da Mlal, Ctm e bottega la Rondine e in programmazione dal 18 al 22 giugno all’interno della festa del Ctm.
Rappresentante delle ‘Abuelas de Plaza de Mayo’ in Italia, Di Giusto ha scritto per anni sulla rivista di cinema argentina ‘Sin Cortes’ ed è padre di due giovani cineasti che lavorano a Buenos Aires. «Chi fa cinema in Argentina, poiché la situazione economica ha fatto lievitare i costi di produzione di quattro volte in più, segue un cinema più vicino al documentario, sviluppa storie reali che raccontano le vicende e i drammi della gente comune».
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