Articolo di Eduardo Galeano.
Noi Uruguayani abbiamo una certa tendenza a credere che il nostro paese esiste, ma che il mondo non ne è consapevole. I mass media – quei media che hanno un impatto a livello mondiale – non parlano mai di questo piccolo stato sperduto nel sud delle mappe.
Come eccezione a questa regola, la stampa britannica alcuni mesi fa a parlato di noi, alla vigilia della visita del principe Carlo. In quell’occasione, il prestigioso London Times ha informato i suoi lettori che la legge uruguayana consente ad un marito tradito di tagliare il naso alla moglie infedele e castrare il suo amante. Il Times dunque attribuiva queste cattive abitudini delle truppe coloniali britanniche alla nostra vita matrimoniale. Apprezziamo il cortese collegamento, ma a dire la verità non siamo mai caduti così in basso. Il nostro barbaro paese, che ha abolito le pene corporali nelle scuole 120 anni prima della Gran Bretagna, è diverso da ciò che può apparire dall’alto e da lontano. Se i giornalisti si decidessero a scendere dall’aereo, potrebbero trovare alcune sorprese.
Noi Uruguayani siamo proprio pochini: solo tre milioni. Riusciremmo a stare tutti quanti in un unico quartiere di una qualunque megalopoli del mondo. Tre milioni di anarchici conservatori: non ci piace avere detto cosa fare, ma fatichiamo ad adottare il cambiamento. Ma quando decidiamo di cambiare, lo facciamo seriamente, ed in questo paese adesso tira una sana aria di cambiamento. à ˆ ora che la smettiamo di essere testimoni passivi delle nostre stesse sventure. L’Uruguay siede da troppo tempo immobile sulla propria decadenza, sin dai tempi in cui riuscivamo ad essere all’avanguardia in così tante cose. I protagonisti sono diventati spettatori: tre milioni di teorici della politica, mentre la vera politica è finita nelle mani di politicanti, che hanno trasformato i diritti dei cittadini in favori elargiti dal potere; tre milioni di commissari tecnici di calcio, mentre il calcio uruguayano si nutre della sua stessa nostalgia.
Il paese di oggi vive in costante contraddizione con il paese di ieri. L’Uruguay ha istituito la giornata lavorativa di 8 ore un anno prima degli Stati Uniti e quattro anni prima della Francia, ma trovare lavoro oggi è un miracolo, e procurarsi da mangiare lavorando solo 8 ore al giorno è ancora più miracoloso: solo Gesù ci riuscirebbe, se fosse Uruguayano e avesse ancora la capacità di moltiplicare i pani ed i pesci. Gli Uruguayani hanno istituito il divorzio 70 anni prima della Spagna, ed il suffragio universale 14 anni prima della Francia. Ma la realtà continua a trattare le donne peggio di come vengono trattate nelle liriche del tango, il che non è cosa semplice;
e le donne si notano per la loro assenza nel mondo della politica: poche isole femminili in un mare tutto maschile.
Questo sistema stanco e sterile non solo tradisce la sua stessa memoria, ma sopravvive in perpetua contraddizione con la realtà . Il paese dipende dalle esportazioni di carne, pelli, lana e riso, ma la terra è nelle mani di pochi. E quei pochi – che predicano le virtù della famiglia cristiana ma licenziano i lavoratori che si sposano – accumulano tutto. Nel frattempo, coloro che vorrebbero terra per lavorarci sopra, hanno la porta sbattuta in faccia, e quei pochi che riescono ad ottenere un poco di terra dipendono dai finanziamenti che le banche danno agli abbienti, mai a coloro che ne hanno veramente bisogno. Stanchi di ricevere un peso per ogni prodotto che ne vale dieci, i piccoli produttori rurali finiscono per cercare fortuna a Montevideo. I disperati arrivano alla capitale, centro del potere burocratico e di ogni altro tipo di potere, in cerca di lavori che vengono negati loro da fabbriche piene di ragnatele. Molti finiscono per raccogliere spazzatura, e molti altri continuano il loro viaggio dal porto o dall’aeroporto.
Noi vinciamo la coppa del mondo delle contraddizioni tra potere e realtà , mentre la coppa del mondo di calcio continua a sfuggirci. Sulla mappa, circondata dai suoi grandi vicini, l’Uruguay sembra un nano. Ma non siamo veramente così nanerottoli. Siamo cinque volte più estesi dell’Olanda, con una popolazione cinque volte inferiore. Abbiamo più terra coltivabile del Giappone, con una popolazione 40 volte inferiore. Eppure gli Uruguayani emigrano in massa perché qui non riescono a trovare il loro posto al sole. Abbiamo una popolazione scarsa ed invecchiata. Nascono pochi bambini.
Sulle strade si vedono più siede a rotelle che carrozzine. E quando i pochi bambini che ci sono crescono, il paese li allontana. Ci sono Uruguayani persino in Alaska ed alle Hawaii. Circa vent’anni fa, la dittatura militare ha costretto molte persone all’esilio. Adesso, in presenza di un regime democratico, l’economia ne sta cacciando dal paese in numero ancora maggiore. L’economia è gestita dai banchieri, che praticano il socialismo imponendo alla società i costi delle loro bancarotte fraudolente, e praticano il capitalismo facendo del paese un fornitore di servizi. Al fine di entrare nei mercati mondiali dalla porta di servizio, ci stanno riducendo allo status di un santuario finanziario con leggi sul segreto bancario, qualche mucca e viste sull’oceano. In un’economia di tal fatta, le persone [non importa se poche] sono superflue.
Modestia a parte, bisogna dire che meritiamo un posto nel Guinness dei Primati anche per motivi onorevoli. Durante la dittatura militare, non c’era un solo intellettuale, scienziato o artista di rilievo in Uruguay – neppure uno – disposto ad applaudire i dittatori. Successivamente, quando già si era instaurata la democrazia, l’Uruguay è stato l’unico paese a sconfiggere le privatizzazioni in un referendum: alla fine del 1992, il 72% degli Uruguayani ha deciso tramite plebiscito che i servizi pubblici essenziali dovevano restare pubblici. La stampa internazionale non ha dedicato una singola riga a questa notizia, sebbene fosse una rara espressione di buon senso. L’esperienza di altri paesi latinoamericani ci insegna che le privatizzazioni con buona probabilità arricchiscono i politici, ma raddoppiano il debito pubblico [come è accaduto in Argentina, Brasile, Cile e Messico], svendendo la sovranità nazionale al prezzo delle banane.
Il solito silenzio dei mass media ha impedito che l’esempio del referendum venisse replicato all’estero, innescando il seppur minimo cambiamento. Ma all’interno dei nostri confini, questo atto collettivo di rivendicazione nazionale contro la corrente dominante, questa affermazione blasfema contro la dittatura universale del denaro, ci ha dimostrato che la forza della dignità che il terrore militare aveva cercato di distruggere è ancora viva a vegeta.
Per quello che possono valere queste righe, se pure valgono qualcosa, lasciate che ve le offra come una base per votare Encuentro Progresista. Spero che nelle prossime elezioni le urne confermeranno la vocazione coraggiosa di questo paese contraddittorio in cui sono nato ed in cui nascerei di nuovo volentieri.
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