America, hai un dollaro al posto del cuore


Tra il 1980 e il 2000, il ventennio del «boom», il dieci per cento più povero degli americani, trenta milioni di persone, vide diminuire il suo reddito dell’8 per cento in termini reali, e l’un per cento più ricco, tre milioni di persone, lo vide aumentare del 175 per cento. I trenta massimi patrimoni individuali e familiari si decuplicarono, e quello di Bill Gates, il nuovo Creso, divenne 1 milione e 400 mila volte superiore a quello medio. Un secolo fa, la fortuna di John Rockefeller, il vecchio Creso, lo divenne di 1 milione e 250 mila volte. Neppure nell’«Età dorata» pertanto, come Mark Twain chiamò la fine dell’Ottocento, quando le ferrovie e il petrolio realizzarono il primo miracolo economico americano, la ricchezza si moltiplicò e concentrò così in poche mani. I Rockefeller, i Vanderbilt, i Carnegie, gli Astor, i Morgan di ieri, i cosiddetti «robber barons» del secolo XIX, o baroni del latrocinio, scompaiono contro i Gates, i Buffett, i Dell, gli Ellison e i Soros di oggi, i despoti della nuova economia.
Questi dati vengono citati, assieme a molti altri, non da un «liberal» o da un sindacalista, ma dal «guru» repubblicano Kevin Phillips, un ex consigliere del presidente Nixon, in un libro che sta spaccando in due l’America: Wealth and Democracy [Ricchezza e democrazia], edito dalla Broadway books. La tesi di Phillips è che la ricchezza, male o affatto ridistribuita, mette a rischio la democrazia, trasformando a poco a poco la Superpotenza in una plutocrazia: essa premia, dice, l’avanguardia del capitale, non quella del lavoro. «Restiamo la più polarizzata e ineguale delle nazioni occidentali», scrive Phillips «ostaggio delle corporation , governata a vantaggio dei potenti». Il politologo è un maestro di provocazioni, ma ha una certa fama di profeta, avallata dagli eventi: nel ’69, quando la politica Usa fu in mano alla sinistra, anticipò la rinascita della destra; e nel ’90, dopo il trionfo della «reaganomics», la spietata politica economica del presidente Reagan, ammonì che essa avrebbe demolito le conquiste sociali del rooseveltismo e kennedismo.
Per i conservatori, che lo accusano di fomentare «la psicosi dell’invidia» dell’uomo della strada, il libro è un’eresia, ma i suoi dati sono impressionanti. Le corporation [società ] che mezzo secolo fa versavano allo Stato il 26,5 per cento di tutte le tasse e il 45 per cento di tutte le imposte immobiliari ne versano adesso appena il 10 per cento e il 16 per cento rispettivamente: è ciò che l’economista democratico Bob Reich, ex ministro del lavoro del presidente Clinton, chiama «corporate welfare», stato assistenziale delle società anziché dei cittadini.
Nell’ultimo ventennio, il guadagno annuo dei dieci massimi manager americani è cresciuto da 3,5 milioni di dollari a 159 milioni di dollari; quello del più pagato è cresciuto addirittura da 5 milioni a 290 milioni [il dipendente medio intasca 29 mila dollari]. Un altro economista democratico, Paul Krugman, ha verificato se la loro performance giustificasse le vertiginose cifre, scoprendo che metà dei manager avevano danneggiato la loro impresa.
Secondo Phillips, è la smentita di due miti: che l’America sia il Paese delle eguali opportunità per tutti e che la condizione dei suoi poveri sia molto migliorata. Nel 1850, prima della guerra civile, riferisce Phillips, nelle metropoli il 95 per cento della ricchezza apparteneva alle famiglie o agli individui più eminenti, e questa realtà non è stata corretta dalla successiva rivoluzione industriale né dall’attuale rivoluzione finanziaria. Per il politologo il motivo è chiaro: da due secoli c’è un rapporto incestuoso, gestito dalle «lobbies» o gruppi di pressione, tra il denaro e la politica, tra le corporations e il Congresso e il governo. E’ falso, afferma Phillips, che l’America sia un libero mercato: le ferrovie private, la spina dorsale del Paese, ad esempio, furono finanziate con 100 milioni di dollari dei contribuenti, somma allora enorme, e con donazioni di terreni sterminati; e oggi le commesse del Pentagono costituiscono il massimo carrozzone pubblico che sia mai esistito. I ricorrenti scandali non hanno mai portato trasparenza.
Phillips è particolarmente critico di quella che definisce la finanzializzazione dell’economia americana, che ha relegato in secondo piano le banche oltre che l’industria. Nel ’70, rileva, i fondi d’investimento totalizzavano 48 miliardi di dollari, adesso totalizzano 7.800 miliardi, più dei due terzi del prodotto interno lordo. Si dice che metà dei cittadini possiedano azioni, ma è una finzione: l’85 per cento dei titoli è in mano al 10 per cento dei ricchi [il 42 per cento è in mano all’1 per cento]. L’ossessione dell’aumento del profitto trimestrale, sostiene il politologo, spinge le società alle speculazioni e alle frodi di bilancio. E si scaglia contro il Partito: «Dalla Casa Bianca al Congresso, i repubblicani si comportano da sicofanti. La Commissione finanze della Camera concede alle lobbies favori che farebbero arrossire una tenutaria di bordello. Il Presidente e la sua famiglia sono coinvolti nell’ascesa della Enron, la società bancarottiera del Texas simbolo dei recenti eccessi di Wall Street».
Perché questo libro? Non per apostasia, proclama Phillips, ma per lealtà . I repubblicani devono cambiare, devono tornare alle origini, ad Abraham Lincoln «che anteponeva il lavoro al capitale» e a Theodore Roosevelt «che difese il pubblico interesse dalle corporations ». Phillips ricorda che nel 1900 i democratici, ciechi a scandali e a ingiustizie simili agli attuali, dopo una crisi sociale ed economica pagarono a caro prezzo la loro ignavia, perdendo il potere per dodici anni. A suo parere, i repubblicani sono oggi nella stessa situazione: «Gli americani incominciano ad averne abbastanza. I democratici lo hanno capito e indossano il manto populista». Il politologo cita il successo ottenuto dal senatore repubblicano ribelle John McCain, dal verde Ralph Nader e da altri alle elezioni del 2000 «con gli attacchi all’asservimento del governo alla finanza e alla perversione del codice fiscale». Allora, conclude, riscossero gli applausi del 40 per cento degli elettori. Domani, potrebbero riscuoterli della maggioranza.

[Articolo di Ennio Caretto tratto da ‘Il Corriere della Sera’ di Venerdì 19 Luglio 2002]

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