Il profitto morale


IL PROFITTO MORALE

di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI

In questi giorni inchieste giornalistiche e convegni di esperti pongono all’attenzione della gente l’urgenza di affrontare con un patto etico le conseguenze dell’opportunismo cinico e dell’impreparazione professionale che hanno provocato disastri di Borsa. A Milano da domani, per tre giorni a palazzo Mezzanotte, nella sede della Borsa, si discuterà di governance . Più o meno nelle stesse ore anche la maggiore Borsa del mondo registra una forte esortazione alla correttezza. A Wall Street, Bush interviene in quello che già viene chiamato «il discorso delle mele marce»: coloro che truccano i conti delle aziende o danno informazioni false agli investitori e alle autorità di controllo devono finire dritti in galera. Non era immaginabile una così improvvisa esigenza tecnico-economica di iniezione morale nel sistema finanziario internazionale. C’è bisogno di immediata «bontà » per l’intero meccanismo, che pur deve restare votato alla remunerazione dei flussi di denaro.
La richiesta proviene da una constatazione. Atteggiamenti manageriali e finanziari, privi di una regola disinteressata e superiore, alla fine vanno contro gli interessi stessi di chi li assume. Impieghi di soldi solo per fare altri soldi si concludono spesso con una perdita di soldi. Enron, WorldCom, Xerox, Vivendi: a diversi livelli di responsabilità l’errore consiste nell’assenza di un baricentro. L’egoismo come unico motore crea inefficienza.
Per un rapporto più forte fra etica e finanza in Italia si discute e si lavora da tempo. Ma finora non era mai affiorata così netta la natura indispensabile del legame fra il massimo del rendimento e il massimo della correttezza. La moltiplicazione elettronica dei prodotti finanziari rende impossibile una strategia del profitto priva di ancoraggi extra finanziari. Non capita soltanto ai junk bonds , obbligazioni-spazzatura, di portare disordine. Succede anche nelle migliori famiglie, e da tempo. Ma l’enorme malinteso ideologico e di piazza della rivolta contro la globalizzazione ha fatto perdere anni all’impostazione di una riforma eticamente ispirata.
Ancora oggi il moralismo inconcludente si scatena contro i prodotti finanziari, in una coazione a ripetere l’antica formula cattocomunista del denaro sterco del diavolo. Globalizzare la miseria, in odio ai mercati, è operazione autolesionistica e in più ignorante dell’idraulica dei vasi comunicanti. Nei cambi le divise si muovono alla ricerca di profitto finanziario, avendo soltanto per il 5 per cento un rapporto con lo scambio di beni e servizi. Quando oltre il 90 per cento delle transazioni non ha nulla da spartire con il commercio mondiale, fare la predica serve a poco. àˆ invece indispensabile una deontologia minima.
Parlavo giorni fa in Vaticano con Angelo Caloia, l’economista e banchiere laico chiamato da Giovanni Paolo II al timone che fu disastrosamente nelle mani di monsignor Marcinkus. L’Istituto per le Opere di Religione [Ior], squassato dal crac del Banco Ambrosiano, fece perdere centinaia di miliardi alla Chiesa. Oggi è tutt’altra cosa. Caloia mi ha raccontato di Madre Teresa di Calcutta, che in quelle stanze, quando era a Roma, veniva a portare i modesti assegni raccolti con la beneficenza. Dopo averli firmati con una grande «M», li affidava allo Ior per un buon uso e un buon reddito. Pregava che fruttassero bene, a fin di bene, attraverso mezzi finanziari rispettosi del bene.
Lo si può fare, anche senza essere santi. àˆ necessario farlo, laicamente, nell’intero sistema finanziario, perché quando uccide la morale, esso prima o poi uccide anche il profitto.

Gaspare Barbiellini Amidei

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