L’Italia della scienza e la globalizzazione


L’Italia della scienza e la globalizzazione

di Luciano Caglioti, Ordinario di Chimica Organica presso l’Università ‘La Sapienza di Roma’ e membro della Segreteria Scientifica del CNR

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L’influenza che la tecnologia esercita sullo sviluppo della società è enorme. Non solo per la produzione di beni, di benessere, seppure con svariate controindicazioni, ma anche perché sulle tecnologie sono nati gruppi colossali: soprattutto nel dopoguerra, sono comparsi nuovi protagonisti, che con la loro presenza e le loro attività influenzano, in modo determinante, la vita degli uomini e quella delle nazioni. Si è accentuato uno scenario che vede in primo piano due tipi di organizzazione: quella degli stati sovrani e quella dei gruppi multinazionali. I primi hanno una struttura che vede un territorio definito, governo, parlamento, esercito, magistratura, partiti, ecc. Uno stato sovrano deve difendere economia, occupazione, deve fornire ai più deboli la necessaria solidarietà , deve costruire scuole, ospedali, strade, ferrovie, deve tutelare l’ordine pubblico, ecc.

Un gruppo multinazionale che operi in settori di rilevante interesse socioeconomio quali quello dei farmaci, degli alimenti, dell’informatica, dell’energia, ecc. ha come scopo principale [potremmo dire statutario] di prosperare. Per prosperare un gruppo siffatto non ha molti vincoli, oltre a quelli del mercato. Può spostare capitali ingenti da un Paese ad un altro, non solo, ma può spostare la produzione da un Paese ad un altro.

Nel dopoguerra la produzione è diventata immensa in tutti i settori, sia quelli tradizionali, sia quelli che sono sorti nel frattempo. Le tecnologie sono divenute i cardini delle diverse produzioni, costituendo il punto di partenza del formarsi di nuovi gruppi multinazionali. Fra le caratteristiche di questa espansione, vi è l’estensione del mercato e la delocalizzazione degli interessi in vari Paesi. Una tecnologia diventa un vero e proprio Stato transnazionale. In pratica, per usare le parole di Ignazio Ramonet [Le Monde Diplomatique] ‘l’impresa globale non ha più un centro, essa è una rete costituita di elementi complementari, sparpagliati nel pianeta e che si articolano secondo una pura razionalità economica, che obbedisce a due concetti chiave: rendimento e produttività . Così un’impresa francese può avere una sede in Svizzera, installare i suoi centri di ricerca in Germania, comprare i macchinari in Corea del Sud, produrre in Cina, elaborare la campagna di marketing in Italia, vendere negli Stati Uniti, avere delle società a capitale misto in Polonia, Messico e Marocco’.

Ma vediamo alcuni dati, che quantificano le linee di tendenza. Su ‘Le Monde Diplomatique’ si leggono interessanti considerazioni riferite al cosiddetto ‘Club dei 200’, intendendo con questa espressione l’insieme dei primi 200 gruppi industriali e bancari. Questo Club deteneva nel 1960 il 17% del prodotto lordo mondiale. Secondo lo stesso giornale [Marzo 1994] questa percentuale era salita al 24,2% nel 1982, al 26,8% nel 1992 e ad oltre il 31% nel ’95. La tendenza ad un accrescimento sempre maggiore si è andata consolidando. Il sistema bancario-industriale internazionale sta diventando quindi, con oltre il 31% del prodotto mondiale lordo, il protagonista della gestione del mondo.

I gruppi hanno una loro autonomia rispetto a chiunque, unico limite essendo l’equilibrio delle forze che si realizza fra diversi gruppi, e anche questo limite si va restringendo, a causa delle partecipazioni incrociate che rendono meno efficaci le leggi antitrust. A conferma di dove si annidi il potere vero è quanto riportato da una inchiesta di ‘Le Nouvel Observateur’ del 5 gennaio 1995, che elenca i 50 uomini più importanti del mondo: nell’elenco non figura alcun capo di Stato o di governo, ministro o deputato.

Stiamo assistendo soprattutto in questo ultimo periodo ad una conquista economica. In tutto il mondo vi è da alcuni anni una nuova parola d’ordine: privatizzare. Negli ultimi anni è passata in mani straniere la maggior parte delle nostre strutture creatrici di ricchezza. Secondo quanto riportato da ‘Il Sole-24 Ore’, in un articolo intitolato ‘Il naufragio del farmaco’ [4 dicembre 1993], le acquisizioni sono state le seguenti: Bonomelli e Italchemi acquistate da Glaxo; Zambeletti, Manetti&Roberts da Beecham; Ici da Schwartz, ISF da SKF; Sharper e Camillo Corvi da Russel-Uclaf; Neopharmed da Merck; Selvi da 3M; Pierrel e Farmitalia-Carlo Erba da Procordia; Maggioni da Winthrop; IPB da Sandoz; Ravizza da BASF; RBS Pharma da Rhone Poulenc; Don Baxter da Travenol; Sigurtà da Bayropharm; Bioresearch da Knoll; Pagni da Park Davis; Chemil da UCB; Isnardi da Delalande; Simes da Astra; Kelopharma da Home Products; Ellem da Pierre Fabre. E questo elenco è di certo largamente incompleto. Né va meglio nel settore alimentare: secondo ‘La Repubblica’ [12 novembre 1993] Martini e Rossi è passato a Bacardi; Negroni e Fini a Kraft; Cinzano e Buton a Grand Met; Italgel e Buitoni a Nestlé; Ferrarelle, Galbani e Agnesi a BSN; Sperlari a Hershley; Bertolli a Unilever. Inoltre, la stessa Nestlé ha acquistato il polo delle acque minerali San Pellegrino-Levissima; Cademartori è stata acquistata da Fromagerie Bel; Saila da Warner Lambert, Cica da Unilever, Bulgheroni da Lindt, Tonno Nostromo da Louis Calvo, Campari da Bols, Stock da Eckes, Star da Danone, Birra Moretti da Interbrew. Una serie di attività della chimica ENI sono passate a ditte europee o americane, Shell ha rilevato il polo tecnologico sviluppatosi dalle ricerche di Natta, Krupp è saldamente presente nella siderurgia, VM Motori a Diesel Detroit, Buffetti a Baring, ecc. Società di ingegneria, le figurine Panini, la Ricordi sono in mani altrui, e lo stesso accade in numerosissimi settori. E purtroppo queste acquisizioni vengono frequentemente accompagnate da uno smembramento o un ridimensionamento dei centri di ricerca: secondo valutazioni riportate da ‘La Chimica e l’Industria’ [settembre 1996] i ricercatori dell’industria farmaceutica italiana sono passati dai 6.940 del 1989 ai 5.800 del 1995. E questo fenomeno non riguarda solo la farmaceutica: un contributo alla deculturazione tecnologica del nostro Paese, proprio in tempi in cui l’innovazione è uno dei più importanti fattori per la competitività sui marcati. Sulla base di quanto sopra, possiamo affermare che i settori più importanti sotto il profilo strategico ed economico sono in mani altrui: energia, farmaceutica, chimica, siderurgia, elettronica, alimenti, cosmetici, ecc.

L’internazionalizzazione dell’economia ci mette quindi in un doppio ‘impasse’: da un lato i nostri gioielli, le strutture che producono ricchezza, sono controllate da altri, dall’altro si va sfilacciando la rete di interconnessione tecnologica del Paese. La domanda di ricerca industriale, da sempre scarsa, rischia di svanire e l’offerta di ricerca pubblica non trova domanda. Né viene favorito il ‘capital venture’, che ha bisogno di tempi rapidi, libertà dalla burocrazia, facilitazioni normative e fiscali; terreno culturale solido, infrastrutture valide.

Un’ultima, riassuntiva considerazione. In un mondo che ha visto nascere, scomparire, riapparire in diversa forma, sparire e ridimensionarsi di nuovo, fascismo, comunismo, socialismo, che ha visto riunirsi e sfasciarsi imperi e nazioni, aggregarsi e disaggregarsi colonie, mercati come il Commonwealth, vi è una costante: il continuo crescere dei gruppi industriali e bancari, e del loro controllo produttivo in settori vitali per l’uomo; ed anche del controllo sui mezzi di comunicazione di massa. Stati sovrani e gruppi convivono, con interessi che possono coincidere o divergere, in un sistema globale nel quale alla straordinaria agilità delle compagnie e delle banche, corrisponde negli Stati una difficoltà decisionale che può assumere, in casi particolari come ad esempio l’Italia, la forma di una vera e propria farraginosità , se non immobilità .

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