Quando la Chiesa disturba il manovratore


QUANDO LA CHIESA DISTURBA IL MANOVRATORE
Enzo Bianchi, Priore del monastero di Bose, ‘Repubblicà del 17 Agosto

Rincresce dover constatare che l’opportunità di approfondire il dibattito
sul ‘senso della storià, sul futuro del mondo possibile, auspicabile o ineluttabile – opportunità offerta dallo svolgimento del G8 a Genova – stia finendo vittima anch’essa delle violenze che hanno tragicamente segnato quelle giornate. Così l’attenzione della maggioranza dei commentatori si é concentrata dapprima sui ‘preparativi’ in vista dello ‘scontro’, poi sugli scontri fisici veri e propri e, ultimamente, sulle vere o presunte fratture tra occidente e chiesa, o in seno alla chiesa cattolica, con qualche colorita digressione su una fantomatica risurrezione del cattocomunismo. Chiamato nominalmente in causa sulla prima pagina di un grande quotidiano nazionale da un commentatore laico, vorrei pacatamente ribadire alcune riflessioni che ritengo non oziose per un proficuo dibattito culturale e sociale, confidando che non vengano nuovamente interpretate come ‘invettiva contro lo sfruttamento capitalistico’. Capisco infatti che il crollo delle ideologie – sarebbe più corretto dire l’affermarsi su scala planetaria di un’unica ideologia, quella del mercato – ha privato molti del comodo schematismo della divisione di persone, idee, stati, economie, visioni della società in due blocchi antagonisti, con la più o meno gradita presenza della chiesa cattolica a suggerire un’improbabile ‘terza vià, a fornire correttivi etici o sterili proteste nei confronti dell’ideologia vincente. Ma gli schematismi sono più duri da abbattere di qualsiasi muro, così quando un fenomeno sociale vecchio di alcuni secoli – l’interdipendenza tra popoli, risorse ed economie – ha subìto una rapida accelerazione e si é visto assegnare la definizione polivalente di ‘globalizzazione’, gli orfani degli spartiacque ideologici si sono affrettati a dividere il genere umano in pro e contro questa realtà . Ora, trattandosi appunto di un ‘fenomeno’ di portata mondiale, di un ‘dato di fatto’, non si vede come si possa essere ‘pro o contro’: sarebbe come chiedersi se si é pro o contro l’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo. Certo, alcuni saranno soddisfatti della qualità che questi elementi possiedono, altri cercheranno di avere un’aria meno inquinata e un’acqua più potabile, altri ancora faranno di tutto per avere
quel minimo di aria e di acqua necessario per vivere… Questa ambiguità si
ingarbuglia ancor di più e nel contempo crea le condizioni per una
contrapposizione, quando si opera un’indebita identificazione tra
‘globalizzazione’ e occidente, facendo di entrambi un tutto indivisibile:
allora sì che essere contrari o dubbiosi o perplessi nei confronti di alcuni
aspetti deteriori del fenomeno significa automaticamente schierarsi
contro l’intera civiltà occidentale.
Se invece ci si interroga su come ‘governare’ il fenomeno, come correggerlo,
come indirizzarlo, come limitarne i difetti e accrescerne le potenzialità –
e questo dovrebbe essere il compito della politica e della cultura – allora
certezze e schematismi saltano e difficoltà e problemi emergono: le attuali
istanze statali e sovranazionali sono adeguate? Dispongono di strutture
decisionali solidamente democratiche e di strumenti applicativi efficaci e
riconosciuti? Hanno uomini e mezzi sufficienti per far fronte a un impegno
di così vasta portata e di così lunga durata? E non bisognerà porre alcuni
principi fondamentali di giustizia, di solidarietà con gli ultimi e i più
deboli? La carta universale dei diritti dell’uomo deve lasciare il posto
alla legge del più forte economicamente? E, ancora, si dovrà accettare
il fenomeno a scatola chiusa, dando per certo che non produce vittime
o che queste non devono ‘disturbare il manovratore’? Non vorrei che
chiunque osi sollevare interrogativi di fronte alle ‘mirabili e progressive
sorti’ dell’umanità affidata al mercato si veda accusato di ‘disfattismo’
antioccidentale, annoverato tra gli ‘sconfitti dalla storià e come tale
ridotto al silenzio.
Sintomatico di questo atteggiamento mi pare il tentativo di dipingere la
chiesa come maggioritariamente ‘antiglobale’ o affascinata da un rigurgito
di analisi marxista della società . La chiesa in questo frangente e su questo
argomento si sta muovendo da decenni – perlomeno dalla ‘Pacem in terris’ di
papa Giovanni nel 1963, ma si potrebbe risalire fino a Leone XIII, per
limitarsi all’epoca contemporanea – in modo sostanzialmente compatto e
concorde nonostante il mutare dei pontefici, e lo sta facendo sulla base di
‘principi radicati nella rivelazione biblica e nella dottrina della
tradizione patristica dei primi secoli: é farina del sacco della chiesa, non
mendicata da fonti aliene, più o meno veteromarxiste’, come ha giustamente
osservato un vaticanista cattolico sul quotidiano economico della
Confindustria [dunque da un pulpito difficilmente tacciabile di
criptocomunismo]. Sì, basterebbe leggere le parole di Gesù sui poveri e sui
ricchi contenute nei Vangeli, oppure gli scritti di san Basilio o le omelie
di sant’Ambrogio, le opere di san Francesco d’Assisi o di Bartolomeo
de las Casas per capire che la diffidenza della chiesa verso la ricchezza
e la lotta all’ingiustizia che da questa può scaturire ha radici molto
antiche e genuinamente evangeliche. Ma tant’é.
Per certi osservatori laici la chiesa ‘serve’, é utile, é ricercata, adulata
e corteggiata quando fornisce un supplemento di etica a una società che
ne é sprovvista, quando supplisce a carenze assistenziali o educative,
quando tranquillizza le coscienze inquiete. Non appena essa accenna però a
uscire dal confino dorato della ‘religione civile’ e pretende di alzare la
voce a nome di chi é senza voce – siano essi i poveri della terra o gli
ammalati di AIDS o i bambini iracheni o i civili serbi o gli immigrati e i
profughi – allora viene zittita, tacciata di ‘falso moralismo’, confinata
nella dimensione interiore, espulsa dai consessi in cui si ragiona ‘delle
cose dure e prosaiche della politicà. ‘Se mi prendo cura dei poveri sono un
santo – osservava amareggiato Helder Camara, vescovo di Recife – se dico
perché sono poveri sono un comunista!’. Non si dimentichi che la chiesa, se
resta fedele al mandato ricevuto, é sempre capace di alzare una voce
profetica e di chiamare con coraggio i problemi con il loro nome:
ingiustizia, oppressione, violenza, idolatria. Come ricordavo nella mia
‘invettivà criticata, i cristiani sanno che i poveri sono coloro che
giudicheranno l’umanità nel giudizio finale [cf. Matteo 25] e che in loro si
ritrova il volto di Dio, di quel Dio che non solo si é fatto uomo, ma si é
fatto povero [cf. 2 Corinti 8,9]. Davvero la chiesa non ha alcun debito da
pagare al marxismo, e chi mi conosce sa che anche per me questa
non é una novità dell’ultima ora.
Del resto, per tastare il polso della chiesa, per verificare dove attinge
ancora oggi i suoi criteri di discernimento, per misurare la fondatezza di
pretese nostalgie marxiste nella sua lettura della società , qualsiasi
commentatore laico potrebbe proficuamente fare riferimento all’intero
magistero di Giovanni Paolo II: é lui che in questi anni, così sfavorevoli
ai poveri, ha continuato a ricordare la loro presenza e a farsi loro voce,
rinnovando costantemente il messaggio del Vangelo, riproposto con forza
negli anni del concilio dall’intero episcopato in comunione con il vescovo
di Roma. Sì, é nella storia di santità della chiesa, nella sua profezia che
vede primi clienti di diritto del Vangelo i poveri, che si può riscoprire
l’afflato spirituale ed evangelico, la preoccupazione pastorale e lo stimolo
missionario che anima il cattolicesimo all’inizio del nuovo millennio.

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