Stiamo tutti pagando per l’irresponsabilità dei cosiddetti “esperti” che hanno mandato a rotoli l’economia mondiale

Mark Weisbrotdi Mark Weisbrot – 2 dicembre 2015

Quello che segue è un estratto dal nuovo libro ‘Failed: What the ‘Experts’ Got Wrong about the Global Economy’ [Falliti: quello che gli ‘esperti’ non hanno capito dell’economia globale] di Mark Weisbrot (Oxford University Press, 2015).

Di tutti gli esempi del fallimento della politica neoliberista dalla Grande Recessione, la crisi dell’eurozona risalta come un’opera d’arte. Le autorità europee che hanno combinato questo caos – la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea (BCE) e il Fondo Monetario Internazionale – noti come “la troika” – offrono una delle più chiare dimostrazioni su vasta scala nei tempi moderni del danno che può essere causato quando chi sta ai piani alti sbaglia le proprie politiche macroeconomiche. Che questo sia accaduto in un insieme di economie ad alto reddito con istituzioni democratiche in precedenza ben sviluppate rende la cosa ancor più convincente.

E’ necessario precisare “istituzioni democratiche in precedenza ben sviluppate” perché i paesi dell’eurozona hanno ceduto i loro diritti sovrani di controllare le proprie politiche macroeconomiche più importanti: dapprima la politica monetaria e dei rapporti di cambio e poi sempre più la politica fiscale dei cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Come vedremo, questa è stata una profonda perdita di governo democratico e una perdita a causa della quale decine di milioni di residenti nell’eurozona hanno pagato un caro prezzo negli anni successivi alla crisi finanziaria mondiale e alla recessione del 2008-2009 e pagheranno per anni ancora incalcolabili a venire.

La maggior parte dei cittadini dell’area euro non aveva capito che cosa stava perdendo quando fu firmato il Trattato di Maastricht nel 1992 e fu introdotto l’euro nel 1999. Non lo si poteva capire fino a quando non c’è stata una grave recessione, quando il governo aveva realmente necessità di utilizzare politiche macroeconomiche espansive per ripristinare crescita e occupazione. Allora abbiamo scoperto che non solo il destino della maggior parte degli europei era nelle mani di persone che erano quasi completamente esonerate dal rispondere all’elettorato; era peggio di così. Il potere era a quel punto nelle mani di persone che avevano la loro personale agenda politica ed economica e che, come dimostreremo, vedevano la crisi come un’opportunità per mettere in atto cambiamenti che non sarebbero mai stati conquistati alle urne.

Per capire il mare di differenza tra autorità non chiamate a rispondere e autorità chiamate parzialmente a rispondere, dobbiamo semplicemente comparare i risultati economici dell’eurozona con quelli degli Stati Uniti nei sei anni successivi al crollo della Lehman Brothers nell’ottobre del 2008. Gli Stati Uniti, che sono stati l’epicentro di quella che sarebbe divenuta una recessione mondiale, hanno avuto un declino durato ufficialmente 18 mesi; la loro recessione è stata dichiarata terminata nel giugno del 2009. Di certo è stata la peggiore recessione statunitense dopo la Grande Depressione e più di quattro anni dopo la fine della recessione i livelli dell’occupazione erano quasi gli stessi che al fondo della recessione. La ripresa statunitense non è stata nulla di cui vantarsi; solo i risultati assolutamente peggiori dell’eurozona potrebbero farla apparire positiva. A tutto febbraio 2014 l’eurozona era ancora prossima alla disoccupazione record del 12 per cento (rispetto al 6,7 per cento degli Stati Uniti) e il PIL era sceso sia nel 2012 sia nel 2013. E nei paesi colpiti più duramente, come Grecia e Spagna, la disoccupazione aveva superato, rispettivamente, il 26 e 27 per cento, mentre la disoccupazione giovanile aveva superato il 58 e il 53 per cento [1].

Arrivati al 2013, nell’area erano caduti venti governi, ma l’austerità era ancora all’ordine del giorno. Questo non sarebbe mai potuto succedere negli Stati Uniti, dove, anche se nel 2012 fosse stato eletto il falco Repubblicano del deficit, Mitt Romney, non avrebbe osato riprecipitare l’economia statunitense nella recessione. Il suo obiettivo principale, come quello della maggior parte dei politici, sarebbe stato la rielezione, e non ci sarebbero state autorità esterne che avrebbero potuto costringerlo a commettere un suicidio politico.

Poi c’è la vasta differenza tra le politiche monetarie delle due economie. Anche se per legge la Fed e la BCE sono entrambe indipendenti, ci sono livelli di indipendenza e alcuni, diremmo, dogmi; e la Fed è risultata agire in modo molto diverso dalla BCE negli ultimi cinque anni. La Federal Reserve statunitense, che aveva abbassato a zero la sua politica del tasso di finanziamento alla fine di dicembre 2008, l’ha proseguito a zero o circa nei successivi sei anni. Come modo per offrire ulteriore stimolo attraverso l’influenza sulle aspettative, la Fed ha anche chiarito che questi tassi “eccezionalmente bassi” sarebbero proseguiti per “un periodo esteso” [2].

Per contro la BCE ha stranamente aumentato i tassi due volte a metà del 2011, all’1,5 per cento, nonostante la debolezza dell’economia dell’eurozona. Ma ancora più importante è stata la politica della Fed di più di 2,3 trilioni di alleggerimenti quantitativi (QE), che la BCE aveva rifiutato di prendere in considerazione, nonostante il fatto che fossero così drasticamente più necessari in Europa, considerato il circolo vizioso dell’aumento dei costi di indebitamento che minacciare di finire in una spirale fuori controllo nelle economie più deboli, tra cui paesi “troppo grandi per fallire”, quali l’Italia e la Spagna. Con i QE, come vedremo, l’Europa avrebbe potuto riprendersi altrettanto velocemente degli Stati Uniti, e naturalmente molto più rapidamente se i paesi membri avessero avuto la capacità e la volontà di impegnarsi in una politica di bilancio espansiva. La BCE, come la Federal Reserve, controlla una valuta forte e può creare moneta. In quanto tale avrebbe avuto la capacità, tanto per cominciare, di impedire che il debito sovrano dei paesi dell’eurozona si trasformasse in una crisi. Aveva di fatto la capacità di mantenere i costi di indebitamento a lungo termine dei paesi dell’eurozona, compresa persino la Grecia, tanto bassi quanto voleva, come ha fatto la Fed negli Stati Uniti quando deficit del bilancio federale statunitense è salito a un record post seconda guerra mondiale di più del 10 per cento.

I QE della Fed hanno anche messo a disposizione fondi perché il governo stimolasse l’economia mediante spese e tagli alle tasse, senza aumentare il suo carico debitorio netto. Non si tratta di magia, ma solo di regole di contabilità, combinate con gli aspetti economici di un’economia debole. Quando la Fed crea denaro mediante i QE e lo usa per acquistare titoli del tesoro statunitensi di lungo termine, essa rimborsa al Tesoro i versamenti degli interessi su tali titoli. Questo significa che il governo ottiene l’equivalente di un prestito senza interessi e il suo debito netto non cresce. Può poi usare questo denaro per qualsiasi cosa: costruire, ad esempio, un’infrastruttura energetica più efficiente o qualsiasi genere di politica fiscale espansiva. Sfortunatamente negli Stati Uniti il governo federale non ha approfittato di questo “denaro gratis” quanto avrebbe potuto. E, sì, si tratta davvero di denaro gratis, con l’inflazione dei prezzi al consumo allo 0,8 per cento nel 2014 negli Stati Uniti e a un negativo 0,2 per cento nell’eurozona non ci sono lati negativi in questa creazione di moneta, poiché non c’è alcun rischio significativo che l’inflazione cresca troppo.

Ricordo di aver parlato di queste cose con un gruppo di parlamentari tedeschi, di tutti i principali partiti politici, a settembre del 2011. Uno di loro obiettò che sarebbe stato impossibile far passare l’idea di politiche macroeconomiche espansive, e specialmente quelle comportanti la creazione di moneta, a un pubblico tedesco che aveva ancora memoria storica della devastante iperinflazione degli anni ’20. Non potei dir nulla al riguardo – non essendo un esperto dell’opinione pubblica tedesca – ma la mia risposta fu che se le cose stavano davvero così, ciò indicava un problema di istruzione del pubblico, non un problema economico.

E l’istruzione del pubblico ha un grosso ruolo in questa storia. E’ una storia in cui la maggior parte del pubblico – in Europa, negli Stati Uniti e in gran parte del mondo – è stato continuamente fuorviato riguardo alla natura e alle cause di un problema economico in inasprimento. Come spiegare altrimenti il modo in cui una crisi originata da un eccesso di indebitamento del settore privato è stata fatta passare al pubblico come un problema causato da governi che si erano rifiutati di vivere secondo i propri mezzi? La crisi è stata poi esacerbata dall’irrigidimento dei bilanci, al punto di spingere l’economia della regione in anni di recessione e stagnazione. La crisi in aggravamento è stata poi utilizzata per giustificare politiche ancor più neoliberiste, tra cui tagli alla previdenza pubblica, contrazione del settore pubblico, privatizzazioni e rendere più facile il licenziamento dei dipendenti. Questa sequenza di miseria in intensificazione causata da una politica governativa – accompagnata da riforme strutturali regressive – può aver luogo solo se una gran parte del pubblico, compresi giornalisti e politici, è seriamente confuso riguardo a ciò che è andato storto e a quali alternative economiche realizzabili siano disponibili.

Ma per capire che cosa è successo dobbiamo guardare a come i responsabili delle decisioni – in questo caso la cosiddetta troika – hanno preso le loro decisioni, in larga misura indipendentemente dalle idee dei cittadini su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per far questo dobbiamo rivolgerci alla crisi finanziaria iniziata agli inizi del 2010.

 

La crisi come opportunità: la troika coglie il momento per rimodellare l’Europa

La crisi nei mercati finanziari dell’eurozona è iniziata, come problema, con il debito sovrano greco che avrebbe potuto essere facilmente gestito. L’economia della Grecia è inferiore al 2 per cento del PIL degli ora 19 membri dell’eurozona e gli altri paesi dell’euro avevano accantonato di gran lunga molto più di quanto necessario per risolvere i problemi della Grecia agli inizi del 2010, quando il debito greco ha cominciato per la prima volta a turbare i mercati finanziari. Ma prima che fosse finita, la crisi avrebbe spinto l’eurozona nella sua recessione più lunga e in una disoccupazione da record, e avrebbe reso l’Europa il maggior freno all’economia mondiale.

Alla fine del 2011 i cosiddetti paesi del BRICS – Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica – erano reclutati per aiutare l’Europa acquistando parte dei suoi titoli e con contributi canalizzati tramite il FMI. Che cosa c’è di sbagliato in questo quadro? L’India ha un reddito pro capite de 3.400 dollari [3] , meno di un nono di quello dell’eurozona. Il Brasile ha 42 milioni di persone che vivono con meno di 4 dollari il giorno [4]. Persino la Cina, anche se ha più di 3,6 trilioni di dollari di riserve, ha solo un quarto del PIL pro capite dell’eurozona [5]. E, come osservato più sopra, una ripresa dell’eurozona è sempre stata realizzabile senza alcun aiuto esterno.

La crisi dell’eurozona è più comunemente descritta sui media come una “crisi del debito” o, più specificamente, come una “crisi del debito sovrano”. Ma ciò è molto fuorviante. Se guardiamo alle cifre e alla storia recente, vediamo una crisi che è stata fondamentalmente causata e aggravata da una cattiva politica. Dei paesi PIIGS solo della Grecia si può dire che avesse costruito un carico debitorio potenzialmente insostenibile prima che la crisi finanziaria e la recessione mondiale del 2008-2009 colpissero l’Europa. Gli altri, in realtà, avevano ridotto il loro rapporto debito/PIL nel corso degli anni del boom tra il 2003 e il 2008 [6]. Il debito pubblico della Spagna, ad esempio, era sceso dal 41,3 al 30,6 per cento del PIL nel corso di quegli anni [7]. Quello dell’Italia era più vasto, l’89,3 per cento del PIL [8], ma con basso deficit di bilancio e bassi tassi d’interesse non c’era alcun motivo perché tale debito fosse considerato insostenibile fino a quando la cattiva gestione dell’economia dell’eurozona ha spinto molto più in alto i costi d’indebitamento dell’Italia.

Persino la Grecia, quando stava negoziando il suo primo accordo con il FMI nel maggio del 2010, aveva un debito pari al 130 per cento del PIL [9], che avrebbe potuto essere gestibile con bassi tassi d’interesse e con il carico del debito ridotto nel tempo con una crescita ragionevole. Diciassette mesi dopo, una volta contratta la sua economia su istruzioni delle autorità europee, il suo debito era salito al 170 per cento del PIL [10]. A quel punto, persino quando il 26 ottobre 2011 le autorità europee avevano raggiunto un’ipotesi di accordo su una “rasatura” del 50 per cento a carico dei detentori di titoli – cioè una riduzione del 50 per cento del capitale del debito pubblico greco detenuto da investitori privati – non era ancora sufficiente a mettere la Grecia su un percorso di debito sostenibile. Un problema che avrebbe potuto essere risolto – al massimo – con sola una piccola percentuale dei fondi che le autorità europee avevano accantonato a questo scopo si era trasformato in una crisi finanziaria che minacciava la salute dell’intera economia europea. Questo è stato il risultato di quella che gli economisti chiamano una politica economica pro-ciclica: contrarre l’economia quando è già debole o in recessione.

Dall’inizio di questa crisi le autorità europee avevano il potere, le risorse e la capacità di attuare una solida ripresa della crescita e dell’occupazione. Era la volontà quella che mancava. La maggior parte dei commentatori e degli analisti ha sottolineato le difficoltà di coordinare la politica fiscale, specialmente la spesa che sarebbe stata necessaria per rimettere in linea l’economia dell’eurozona. Sui media è divenuta comune una narrazione di tedeschi e altri europei grandi lavoratori parsimoniosi riluttanti a sovvenzionare le abitudini pigre e permissive dei loro vicini meridionali. Naturalmente la maggior parte di ciò non ha alcuna base nella realtà. Ad esempio i greci, in media, dedicavano considerevolmente più ore al lavoro rispetto ai loro omologhi tedeschi: circa 2.037 l’anno rispetto alle 1.388 in Germania [11]. I greci vanno anche in pensione più tardi dei tedeschi. E se guardiamo al problema in termini di chi si è avvantaggiato di più degli anni buoni dell’euro, la cosa non è così chiara: più del 100 per cento della crescita tedesca nell’espansione dal 2002 al 2008 è derivata da esportazioni, la maggioranza delle quali è finita in Europa. La crescita tedesca guidata dalle esportazioni ha anche consentito al paese di aumentare la produttività e la competitività nella produzione. Nel lungo termine questo è molto meglio della crescita basata sulle bolle speculative sperimentata da Spagna e Irlanda nel periodo antecedente la crisi.

Con questo non si vuol negare che ci siano gravi problemi di evasione fiscale da parte dei detentori di alti redditi e dei proprietari d’impresa in Grecia e in Italia, o che i sentimenti popolari in paesi come Germania o Finlandia possano rendere più difficile assistere altri paesi dell’eurozona in crisi. Ma la crisi dell’eurozona non è stata causata dall’eccessivo indebitamento del settore pubblico. E anche il sentimento contrario ai salvataggi nei paesi più ricchi è spesso troppo semplificato; gran parte di esso non è solo un pregiudizio nazionale contro gli europei del sud, ma include anche un risentimento popolare più legittimo nei confronti del salvataggio delle banche europee.

Ma tutti questi problemi sono secondari rispetto al problema fondamentale e profondamente mal compreso della politica macroeconomica sbagliata. Se non fosse stato per il danno economico inflitto dalle autorità europee nel 2010-2013, gli europei avrebbero potuto avere a disposizione numerosi anni per cercare di correggere i problemi strutturali e politici dell’eurozona, se era questo che la popolazione e i suoi rappresentanti eletti volevano fare. E’ naturalmente possibile che non ci sarebbe stata la volontà politica di attuare i cambiamenti che sarebbero stati necessari per preservare la moneta comune nel lungo termine. Ma per più di quattro anni (e si continua) le autorità europee hanno messo in atto in successione politiche che hanno rallentato l’economia dell’eurozona e, per la maggior parte del tempo, politiche aggiuntive che hanno causato una grave crisi finanziaria. Ciò ha reso sempre più difficile, se non impossibile, affrontare problemi di coordinamento di politiche o altri problemi strutturali nell’eurozona.

Come segnalato più sopra la situazione del debito della Grecia è stata trasformata da qualcosa che avrebbe potuto essere risolto in modo relativamente semplice, e con poche risorse, in un caos ingestibile e contagioso. E l’acuta crisi sofferta dall’eurozona tra il luglio 2011 e l’agosto 2012 è stata basata sui timori dei mercati finanziari che le autorità europee avrebbero potuto fare all’Italia quello che avevano fatto alla Grecia. Quando il FMI ha dovuto abbassare le sue previsioni di crescita dell’economia italiana, tra le sue previsioni di aprile e settembre del 2011 [12], ciò è stato la conseguenza diretta dei 74 miliardi di dollari del pacchetto d’austerità che le autorità europee avevano imposto al governo italiano.

Nel maggio del 2010 il governo greco è stato il primo a ricevere fondi dalle autorità europee per finanziare il rinnovo del suo debito perché non era più possibile indebitarsi presso i mercati finanziari. “Insieme con i nostri partner dell’Unione Europea stiamo mettendo a disposizione un livello di sostegno senza precedenti per aiutare la Grecia in questo sforzo e – col tempo – a contribuire a ripristinare crescita, occupazione e un livello di vita migliore”, affermò il direttore esecutivo del FMI Dominique Strauss-Kahn nell’annunciare l’accordo per 110 miliardi di euro da versare nel giro dei successivi tre anni [13].

I termini chiave erano “col tempo”. Il FMI e i suoi partner sapevano che la stretta fiscale avrebbe peggiorato le cose. “E’ attesa una forte contrazione della crescita del PIL reale nel 2011-2011”, disse il Fondo, ma aggiunse che “dal 2012 in poi, una migliorata fiducia del mercato, un ritorno ai mercati del credito e riforme strutturali generali sono attese guidare un rimbalzo della crescita” [14].

La prima parte di quella previsione si è realizzata, con una caduta del PIL dell’11,7 per cento nel 2010-2011 [15]. Ma la seconda parte è stata un sogno. A dicembre 2011 l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) prevedeva un ulteriore declino del 3 per cento nel 2016 [16] che si è poi rivelato del 7 per cento [17].

Non è stata una sorpresa, visto che il governo greco si era impegnato a tagliare 28,3 miliardi di dollari, cioè il 12 per cento del PIL, dal suo bilancio entro il 2015 e a licenziare il 20 per cento dei dipendenti del settore pubblico nei successivi quattro anni [18]. Chi investe in un paese che si è impegnato ad anni di recessione?

Il FMI ha giustificato queste misure in parte affermando che l’alternativa – una ristrutturazione del debito – portava con sé rischi eccessivi di contagio del resto dell’Europa, dove le banche detenevano centinaia di miliardi di dollari di debito greco. Ma poiché il pacchetto di “salvataggio” destabilizzava l’economia greca e pertanto accresceva il rischio di un’insolvenza caotica, la soluzione preferita dal Fondo ha in realtà aggravato il contagio.

Timori che i detentori di titoli greci avrebbero finito per subire perdite e che il Portogallo, l’Irlanda e forse persino la Spagna avrebbero seguito il percorso della Grecia cominciarono a diffondersi nei mercati finanziari. Il 9 maggio 2010 la BCE affermò che sarebbe intervenuta nei mercati dei titoli sovrani, invertendo una decisione di soli quattro giorni prima che aveva fatto crollare i mercati [19]. Era una concessione della BCE, ma era troppo limitata per arrestare la crisi finanziaria che le autorità europee avevano messo in moto. Timori che un’insolvenza della Grecia e le sue conseguenze sarebbero sfociate in una disgregazione dell’euro cominciarono a muovere i mercati.

Il giorno successivo le autorità europee (compreso il FMI) raggiunsero un accordo su un fondo da un trilione di dollari mirato a “colpire e terrorizzare” [“shock and awe” – riferimento alla tattica militare basata sull’uso di forze imponenti per travolgere l’avversario, resa famosa dalla guerra in Iraq – n.d.t.] i mercati finanziari costringendoli a ritenere che l’insolvenza di un qualsiasi governo dell’eurozona riguardo ai propri titoli era impossibile [20]. I mercati azionari e obbligazionari inizialmente reagirono con un forte rialzo, ma ci furono postumi terribili una volta che la realtà si impose il giorno dopo. A quel punto il debito dell’Italia, che era considerevolmente maggiore di quello di tutte le altre economie in difficoltà dell’eurozona messe insieme, non era ancora considerato a rischio.

Ma per gli altri, compresa la Spagna, era già chiaro a molti che senza un impegno della BCE a continuare a mantenere i costi d’indebitamento a livelli sostenibili, un fondo di “salvataggio” avrebbe solo consentito ai governi di accumulare altro debito, in relazione al quale alla fine avrebbero dovuto dichiararsi insolventi. Le autorità europee erano ancora impreparate a considerare una qualsia soluzione pratica. Stabilendo la stretta fiscale come requisito di accesso a qualsiasi finanziamento europeo/FMI avevano garantito che il problema del debito non avrebbe fatto che aggravarsi.

A quel punto persino i mercati obbligazionari, che tradizionalmente hanno un rialzo quando i governi si impegnano in strette fiscali, cominciarono a diventare stranamente keynesiani: a volte i prezzi dei titoli scendevano dopo notizie che la Grecia, ad esempio, avrebbe messo in atto un’ulteriore austerità. A novembre 2010 il governo irlandese divenne la seconda economia dell’eurozona a firmare un accordo con il FMI e le autorità europee, dopo che il rendimento dei suoi titoli decennali era passato all’8 per cento. Il Portogallo sarebbe stato il terzo, a maggio 2011. I temuti accordi che, in decenni passati, erano stati la punizione inflitta a paesi a basso e medio reddito con problemi di bilancia dei pagamenti, erano ora divenuti il destino di nazioni europee ad alto reddito. Era un genere artificiale e senza precedenti di crisi della “bilancia dei pagamenti”: si trattava, dopotutto, di governi con una moneta forte che poteva essere creata dalla “loro” banca centrale. Ma la banca centrale non era realmente loro, sfortunatamente, e non intendeva fare ciò che erano disposte a fare la banca centrale degli Stati Uniti o anche quella del Regno Unito per contenere la crisi attribuendo la massima importanza a contenere i costi d’indebitamento dei paesi vulnerabili. Lo scenario della crisi apertasi nel luglio del 2011 si è evoluto così. L’austerità, combinata con il rallentamento dell’economia regionale, stava costringendo l’economia italiana a rallentare o addirittura a contrarsi.

Una crescita economica più lenta determina la caduta delle entrate governative (e l’aumento automatico di certe spese) e così gli obiettivi di deficit promessi sono più difficili da conseguire. Il governo è allora pressato a fare altri passi di taglio della spesa (e/o di aumento delle tasse). Ciò riduce ancora di più la crescita economica). Il processo continua in una spirale al ribasso, come accaduto in Grecia. E il debito italiano, allora paria 2,6 trilioni di dollari, era più di cinque volte quello della Grecia [22]. Le autorità europee non erano riuscite a mettere insieme le risorse per gestire una possibile insolvenza di dimensioni simili; di qui la serie di crisi dei mercati finanziari.

 

Note

[1] 1.     Eurostat, “Unemployment Rate by Sex and Age Groups—Monthly Average, %,” 2014. Scaricato nel maggio del 2014 da http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show. do?dataset=une_rt_m&lang=en

[2] Consiglio dei Governatori del Federal Reserve System, “FOMC Statement”, 18 marzo 2009. Scaricato il 12 maggio 2014 da http://www.federalreserve.gov/ newsevents/press/monetary/20090318a.htm.

[3] In termini di parità di potere d’acquisto.

[4] Socio-Economic Database for Latin America and the Caribbean (CEDLAS and the World Bank), “Poverty.” Scaricato nel maggio 2014 da http://sedlac.econo.unlp.edu.ar/eng/statistics.php

[5] Il PIL pro capite (PPP) dell’area euro i di 34.016 dollari, mentre quello della Cina è di 9.844 dollari. Vedere Fondo Monetario Internazionale, “World Economic Outlook”, aprile 2014. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/01/weodata/index.aspx

[6] Vedere Mark Weisbrot “What’s Next for the Eurozone? Macroeconomic Policy and the Recession”, Center for Economic and Policy Research, 17 aprile 2013, http://www.cepr.net/index.php/events/events/what-next-for-the-eurozone-macroeconomic-policy-and-the-recession.

[7] 1.     IMF, “World Economic Outlook April 2014,” aprile 2014, http://www.imf.org/ external/pubs/ft/weo/2014/01/weodata/index.aspx

[8] Rapporto debito/PIL nel 2008. “World Economic Outlook October 2014,” ottobre 2014. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/weodata/index.aspx

[9] FMI, “World Economic Outlook October 2014,” ottobre 2014. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/weodata/index.aspx

[10] FMI, “World Economic Outlook October 2014,” ottobre 2014. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/weodata/index.aspx

[11] OCSE “Level of GDP per Capita and Productivity,” 2012. Scaricato a maggio 2014 da http://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=PDB_LV

[12] Il World Economic Outlook dell’aprile 2011 aveva previsto una crescita del PIL dell’1,1 per cento nel 2011; dell’1,3 per cento nel 2012 e dell’1,4 per cento nel 2013. A settembre questi stati furono rivisti al ribasso allo 0,6 per cento, 0,3 per cento e 0,5 per cento.

[13] FMI, “IMF Approves €30 Bln Loan for Greece on Fast Track,” IMF Survey online, 9 maggio 2010, https://www.imf.org/external/pubs/ft/survey/so/2010/ NEW050910A.htm.

[14] FMI, “Greece: Staff Report on Request for Stand-By Arrangement,” p. 140. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/ scr/2010/cr10110.pdf

[15] FMI, World Economic Outlook, October 2014,” October 2014. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/ weodata/index.aspx.

[16] OCSE, “Greece,” in OECD Economic Outlook, Vol. 2011, Issue 2 (Paris: OECD Publishing, 2011).

[17] FMI “World Economic Outlook, October 2014,” October 2014. Scaricato il 6 febbraio 2015 da http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/ weodata/index.aspx.

[18] Ministero delle finanze greco, “Greece: Medium-Term Fiscal Strategy 2012–15,” giugno 2011, http://www.minfin.gr/sites/default/files/financial_files/MTFS.pdf

[19] Banca Centrale Europea, “ECB Decides on Measures to Address Severe Tensions in Financial Markets,” 10 maggio 2010, http://www.ecb.europa.eu/press/ pr/date/2010/html/pr100510.en.html.

[20] Julien Toyer e Ilona Wissenblach ““ ‘Shock and Awe’ Euro Rescue Lifts Global Markets,” Reuters, 10 maggio 2010 http://www.reuters.com/article/2010/05/10/ us-eurozone-idUSTRE6400PJ20100510

 

Mark Weisbrot è co-direttore e cofondatore del Center for Economic and Policy Research. Si è laureato in economia all’Università del Michigan. E’ coautore, con Dean Baker, di “Social Security: The Phony Crisis”(University of Chicago Press, 2000), e ha scritto numerosi documenti di ricerca sulla politica economica. E’ anche presidente di Just Foreign Policy.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/were-all-paying-for-the-unaccountability-of-so-called-experts-who-screwed-up-the-world-economy/

Originale: Alternet

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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