Modello argentino a Castelforte

(Fonte: http://comune-info.net)

I lavoratori all’epoca non potevano immaginare che alla morte del fondatore, nel 1998 alla non tenera eta’ di 92 anni, sarebbero cominciati i guai. Non trascorse molto tempo, infatti, prima che la Manuli decidesse di cedere l’azienda a una multinazionale americana, la Tyco. Non e’ necessario essere degli esperti di nastri adesivi perche’ questo nome risuoni familiare: il crac della big company ”’ una conglomerata da 36 miliardi di fatturato – segui immediatamente quello della Enron, ed entrambi i fallimenti divennero l’emblema delle follie del capitalismo rampante americano degli anni ’90. Il caso che fece diventare il suo numero uno un paradigma delle follie dei manager della Manhattan da bere post-reaganiana merita di essere raccontato. Dennis Kozlowsky, all’apice del suo successo, decise di regalare alla consorte una festa di compleanno in una villa in Sardegna. Ben prima del capogruppo laziale del Pdl Carlo De Romanis, che per festeggiare la sua elezione indisse a spese della collettivita’ un toga-party in stile antica Roma, Kozlowsky curiosamente organizzo’ un’analoga festa, con tanto di ragazze vestite da Poppea, agenti della security in divisa da centurioni e finanche un gladiatore a torso nudo. A inchiodare i partecipanti al loro cattivo gusto ci penso’ dapprima un video amatoriale che fece il giro delle tv americane. Ma la vicenda viro’ dallo scandalistico al penale quando si venne a sapere che il party era stato pagato con denaro dell’azienda: in totale un paio di milioni, 250 mila euro solo per l’esibizione del cantante Jimmy Buffet. Kozlowsky provo’ a difendersi sostenendo che, pur essendo gli invitati abbigliati come a una festa di carnevale, fra di loro i toni delle conversazioni erano quelli seriosi di una riunione di un consiglio d’amministrazione: ‘Quando si era seduti o ci si incontrava parlavamo di quello che stava succedendo in azienda’. Non gli credette nessuno, naturalmente, tantomeno il giudice, che lo condanno’ a 8 anni di carcere per aver utilizzato, insieme all’ex direttore finanziario Mark Swartz, ben piu’ dei due milioni della festa in maschera: in tutto dalle casse della Tyco erano stati fatti sparire, per fini personali, 600 milioni di dollari.

A pagare le spese della pagliacciata sarda e delle altre spese allegre dei manager della Tyco furono anche gli operai di Santi Cosma e Damiano. La parabola della fabbrica laziale e’ divenuta cosi una metafora perfetta del declino industriale italiano e dell’evoluzione del capitalismo negli ultimi cinquant’anni: dal padre padrone all’italiana ai rampanti americani, fino alle banche e alle grandi finanziarie che aleggiano come avvoltoi sulle macerie del capitalismo, interessate solo a speculare e rivendere, mai a produrre. La ormai ex Manuli ed ex Tyco finisce infatti nelle mani di un fondo lussemburghese, Blu-O, ‘specializzato in ristrutturazioni di aziende di medie dimensioni’, come si puo’ leggere sul suo sito. Per gli operai comincia la via crucis degli stati di crisi e delle casse integrazioni ”’ i costi, naturalmente, sono sempre scaricati sull’odiato Stato ”’ finche’ l’azienda viene ceduta, per 19 milioni di euro, a una multinazionale messicana, anch’essa produttrice di nastri per imballaggi: la Alma Monta. Il suo boss Pablo Keller si presenta con un ambizioso piano di investimenti, che sostiene essere finanziato nientemeno che dalla Banca Mondiale, e in una conferenza stampa annuncia: ‘La Evotape ”’ questo l’ultimo nome della Manuli, ndr ”’ rappresenta il nostro primo investimento in Europa, che continuera’ nella sua ricerca di opportunita’ di investimento’. E’ il 21 giugno 2010, sei mesi dopo la fabbrica chiudera’ per mancanza di liquidita’. Per i 137 lavoratori si spalanca l’abisso della mobilita’, che in un paesino del sud Italia ai tempi della Grande Crisi non e’ altro che l’anticamera della disoccupazione. Cioe’ della perdita d’identita’ e di ruolo sociale.

Stalingrado non si espugna

Se un gra nde choc puo’ provocare, per reazione, effetti opposti a quelli preventivati, quel che e’ accaduto a Santi Cosma e Damiano ne e’ la dimostrazione. E’ in quei giorni di disperazione e sconforto, con decine di famiglie sul lastrico e un indotto azzerato, che in molti di loro scatta la voglia di reagire. ‘Ci siamo detti: questa fabbrica chiude non perche’ non produce piu’ nulla ma perche’ vittima di speculazioni finanziarie, noi non sappiamo fare altro, se stiamo insieme possiamo provare a ripartire’, spiega uno di loro. ‘Piuttosto che stare ad aspettare un Godot che non sarebbe arrivato mai, vale a dire un intervento dello Stato o un altro compratore, abbiamo deciso di rimetterci in gioco’, dice Olivella.

Agli operai della Evotape non difetta, oltre all’indubbia capacita’ lavorativa, una solida cultura politica e sindacale: ‘Eravamo in stragrande maggioranza iscritti alla Cgil, ai tempi del Pci eravamo considerati una sorta di Stalingrado operaia, eravamo noi ad aprire sempre le feste del primo maggio’, raccontano i piu’ anziani. Di sicuro un background del genere ha fornito loro la capacita’ di organizzare una resistenza che ha pochi pari nel nostro Paese. Attutita dal silenzio della campagna circostante e dalla lontananza mediatica, ma non per questo meno incisiva. Per due anni una parte dei lavoratori, quelli che hanno creduto possibile una rinascita, hanno presidiato giorno e notte lo stabilimento per evitare che ladri interessati o occasionali portassero via o danneggiassero i costosi e indispensabili macchinari. Per un periodo l’hanno anche occupata. Minacciati di sgombero, hanno puntato gli idranti contro la polizia: ‘Se ci provate, finisce come al G8 di Genova’. Ancora oggi ammettono: ‘Avremmo resistito, non volevamo abbandonare un luogo simbolo del nostro territorio’.

L’antidepressivo

‘Non abbiamo voluto vivere la depressione’. Per la prima volta dall’inizio di questo viaggio sento pronunciare questa parola. Accade in queste campagne del basso Lazio, dove basta guadare un torrente per ritrovarsi in tutt’altra terra: il casertano dei Casalesi, della ‘little Africa’ dei raccoglitori di pomodori e dei villaggi abusivi affacciati sul mare. Ad ascoltarla, ci si sente come un cercatore del Sacro Graal che si imbatta in una prova decisiva della sua esistenza: la Grande Depressione non e’ un’invenzione, e’ qui, ora, non e’ solo una suggestione giornalistica o la boutade di un Paul Krugman qualsiasi. Si respira nell’aria e finalmente c’e’ chi trova le parole per nominarla. Ma si puo’ combattere e superare. E’ questo l’insegnamento dei lavoratori della Mancoop, ex Evotape, ex fondo lussemburghese, ex Manuli.

La guerra tra poveri e’ pero’ sempre in agguato. Non tutti gli ex operai hanno aderito alla nuova cooperativa: piu’ della meta’ dei lavoratori della ex Evotape hanno deciso di accontentarsi del sussidio statale e di non impegnarsi in questa avventura. Ci sono state polemiche, incomprensioni e liti, in particolare con la Cisl. ‘Purtroppo da queste parti c’e’ diffidenza nei confronti delle cooperative, molti avevano paura e non hanno voluto rischiare’, spiega Olivella. Il presidente della Mancoop ci tiene a precisare che il percorso che ha portato alla costituzione della cooperativa e’ stato ‘inclusivo, le assemblee sono state aperte a tutti’. La quota sociale era poco piu’ che simbolica: cento euro. ‘Ma oggi, ancora prima di ricominciare a produrre, siamo gia’ in attivo di 11 mila’ grazie alle prime commesse, raccontano con orgoglio. Si trattava solo di resistere a oltranza e di lavorare senza guadagnare. In 53 lo hanno fatto per due anni: andando a presidiare la fabbrica pur senza prendere lo stipendio, per non consegnarsi alla depressione del non lavoro e trasformarsi anche loro in Tom Joad del XXI secolo, costretti a emigrare chissa’ dove.

La democrazia partecipativa

La Mancoop adotta un metodo che Dario D’Arcangelis, sindacalista della Cgil che mi fa da guida nel deserto industriale del basso Lazio e che, come un beduino del Sahara, conosce le oasi in cui far tappa, definisce di ‘democrazia partecipativa’: tutto si decide in assemblea. In questa fase, l’autogestione e’ quasi totale: tutti fanno un po’ di tutto. I lavoratori sono riusciti a ottenere in fitto, a un costo di 180 mila euro l’anno, 20 mila metri quadri dello stabilimento. Finalmente proprietari di loro stessi dopo aver sperimentato padroni di diversa risma, avventurieri centroamericani e finanzieri senza volto, mostrano le macchine sottratte alla dismissione, ne descrivono con orgoglio e dovizia di particolari prestazioni e capacita’, quasi fossero degli esseri viventi, un’estensione della propria capacita’ fisica e intellettuale.

La Mancoop ha appena fatto le prime assunzioni, ed entro i primi mesi ne prevedono 35. Si sono dati un tempo di tre anni per farla decollare, stimano un fatturato di 2-3 milioni all’anno. Dalle istituzioni vorrebbero non tanto solidarieta’ e neppure assistenzialismo, come ribadiscono a piu’ riprese, ma una politica di sostegno e incentivo a imprese del genere, per rimettere in moto le troppe energie lavorative represse dalla recessione. Soprattutto, sperano che la loro esperienza sia replicata, come nell’Argentina del 2001: ‘Siamo un modello, la dimostrazione che si puo’ uscire dalla crisi mettendo in gioco se stessi’. Un fiore sbocciato a sorpresa nel deserto italiano, con l’ambizione di farne fiorire altri mille.

 

Fonte: il manifesto, 18 maggio 2013.

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