Piemonte, cacciamo la caccia: 3 giugno festa della Repubblica.

Il prossimo 3 giugno i cittadini piemontesi si potranno esprimere sul restringimento della scandalosa anarchia venatoria che vige nel nostro Paese. Potrebbe essere un salto di civiltà potenzialmente idoneo a fare da apripista per altre regioni italiane assestando un duro colpo a una pratica che, al di là degli aspetti etici di cui in seguito, crea gravissimi pericoli per l’incolumità anzitutto umana (gli incidenti, ahinoi anche mortali, causati da cacciatori sono svariate decine ogni anno), incentiva la circolazione delle armi con i connessi rischi sociali e, non ultimo, contribuisce in modo rilevante alla distruzione dell’ambiente e degli ecosistemi, o di quanto ne resta al netto della selvaggia urbanizzazione e della cementificazione che divorano lo Stivale.
Le mie ragioni di critica all’attuale progetto europeo sono ben note e non mi dilungo qui al riguardo, ma è bene sottolineare che i nostri politici, sempre pronti a sbracciarsi trasversalmente in favore dell’Europa e dei suoi desiderata quando si tratti di fiscal compact o di misure draconiane sul welfare e sulle fasce deboli della popolazione, sono degli sciovinisti qualora si parli di infrazioni alla normativa comunitaria sulla caccia, scaricando sui bilanci pubblici sanzioni per milioni di euro al solo fine di compiacere la lobby venatoria, numericamente risibile. E come può essere un caso la scelta della data? Il 3 giugno, sempre per onorare l’invito balneare, complice anche la festa del 2, in ricordo della nascita di quella Repubblica il cui fondamento civico e legislativo è la Costituzione entrata in vigore nel 1948. Quale modo migliore per onorarla se non rivitalizzando la partecipazione democratica e l’istituto referendario? Ecco perché ho provocatoriamente spostato di un giorno la vera celebrazione della festa, che dovrebbe ridursi a qualche discorso di circostanza e una parata militare in barba al “ripudio della guerra” sancito dall’art. 11 della Carta, ma con l’attenzione e l’interesse per la “cosa pubblica”, appunto.
Di accorpamento con le amministrative, naturalmente, nemmeno a parlare, ché i sacrifici bisogna farli fare ai pensionati e allo stato sociale, che deve diventare “più magro”, non certo alla lobby venatoria! Tutto ciò, si noti, dopo che le firme per tale referendum furono raccolte nel 1987!
Si tenga presente che questa non è una battaglia da ambientalismo minoritario e retrogado, per quanto di fronte alle indiscutibili evidenze sui cambiamenti climatici e sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo qualsiasi persona in buona fede dovrebbe convenire in merito all’urgenza di modificare stili di vita e scelte economiche, bensì è lo specchio postremo di un atteggiamento di sfregio e primazia sulla natura e sul creato frutto di retaggi primitivi che dunque il “progresso” non potrebbe che portarci a superare.
Inutile rimarcare che, ancora una volta, la sensibilizzazione e la promozione di tale referendum dovrà passare attraverso l’attivismo civico e la propaganda orizzontale (non solo su internet!) fra amici, parenti, colleghi e conoscenti, considerata la cappa di censura che i media di regime faranno calare su tale avvenimento. Già questo dovrebbe indurci a cogliere la valenza di tale appuntamento e le sue ripercussioni sulle vite di ciascuno di noi. Io ho preso questa situazione, ormai endemica, come un’occasione di crescita, e lo posso dire avendo una certa esperienza di “battaglie minoritarie” (dall’Europa di cui accennavo prima arrivando alla scorsa stagione referendaria su acqua e nucleare, lì invero ottenendo una certa soddisfazione…), poiché non solo ho avuto la fortuna di conoscere delle persone straordinarie e, cosa ancor più bella, incredibilmente “normali”, ma ho anche avuto modo di costruire relazioni più autentiche con altri/e infrangendo la patina di conformismo e convenzione che talvolta informa il nostro agire sociale. Al di là quindi dell’esito, posso testimoniare che “buttarsi” nella costruzione di un cambiamento reale non è solo una faccenda “socialmente utile”, ma lo è anche per se stessi. Ciò per quel che la mia parola può valere, s’intende.
A margine di tale ragionamento voglio esprimere qualche battuta in merito al dibattito inerente l’introduzione del famoso “omicidio stradale”, che, di fatto, già c’è ed esattamente nei termini in cui lo vorrebbe “introdurre” il Governo. Recita infatti il secondo comma dell’art.589 del c.p., il quale sanziona l’omicidio colposo:
“Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sei anni.
Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:
1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;[tasso alcolemico maggiore di 1,5, NDR]
2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.”

Ebbene, data tale solerzia, perché non introdurre anche “l’omicidio venatorio”? Difatti se, malauguratamente, a un cacciatore sfuggisse un colpo di fucile e uccidesse una persona questi sarebbe incriminato per omicidio colposo (di fatto cavandosela con sei mesi sospesi con la condizionale!). Non mi addentro in questa sede sull’errore e sull’aberratio delicti perché sono ambiti squisitamente penalistici e caratterizzati da tecnicismo, ma, trattandosi di “norme manifesto” (perché il bene giuridico “vita” è tutelato in sede penale da ogni aggressione, qualunque ne sia il mezzo e la modalità) la cui utilità pratica sarebbe invero piuttosto limitata, non sarebbe il caso di concepire tale delitto, l’omicidio venatorio appunto, stante che in termini di fattispecie giuridica è la stessa dell’omicidio stradale? La guida di un automezzo e l’attività venatoria sono attività vietate alla generalità dei consociati, ma facoltizzate a determinati soggetti muniti di una particolare “autorizzazione” dell’autorità amministrativa (trattandosi di un intervento divulgativo non mi addentro nelle distinzioni classificatorie tra “licenza di caccia”, “porto d’armi” e “patente di guida”, rubricandole nei provvedimenti che ampliano il patrimonio giuridico di un soggetto a seguito di un intervento amministrativo discrezionale). Ebbene si tratta di attività intrinsecamente pericolose cui la legge riconnette uno specifico obbligo di verifica psico- attitudinale, pertanto equipararle anche in termini di trattamento sanzionatorio quando ledano il bene giuridico “vita” sarebbe semplicemente un corollario del principio di uguaglianza. Nulla di più. Questo tuttavia potrebbe essere un deterrente per i cacciatori che esercitano il loro “sport” nei pressi di abitazioni e centri abitati quantomeno a salvaguardare l’incolumità degli uomini, visto che i limiti di distanza, questa è comune esperienza, sono platealmente e bellamente violati con la crassa tracotanza di chi si trovi ad avere un’arma in mano e la complicità delle istituzioni.

Alberto Leoncini
albertoleoncini@libero.it

http://www.referendumcaccia.it/
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