Quello che è successo in Italia il 12 e il 13 giugno è, senza giri di parole, un appuntamento con la storia dopo il quale nulla sarà più come prima. Piaccia o no. Le feste sono state senz’altro un momento di grande emozione, ma credo di avere sufficiente freddezza per tracciare un’analisi non viziata dal trasporto emotivo. Da mesi sto seguendo dall’interno la campagna elettorale per i referendum che è riuscita a coagulare una coalizione sociale vasta, eterogenea e colorata nel nome di un’idea diversa di convivenza civile, al di là del merito dei quesiti. L’alchimia si è rivelata perfettamente funzionante, capace cioè di innescare una reazione partecipativa e un dibattito fecondo. Ora è giusto, lecito e meritato festeggiare viste e considerate le mostruose limitazioni, a usare un candido eufemismo, che sono state poste contro i promotori e i sostenitori del SI, ma voglio anzitutto rivolgere un appello all’attenzione e alla vigilanza. Non solo “la guerra continua”, ma dobbiamo aspettarci una reazione rabbiosa e spietata da parte degli oligopoli che hanno lavorato alla delegittimazione della battaglia democratica oggi vinta in una sua fase dirimente. Lo dico senza perifrasi: il colpo assestato a multinazionali e finanziarie non è molto dissimile da quello di Salvador Allende con le miniere di rame. Le conseguenze sono ben note, quindi: antenne drizzate. Aspettiamoci di tutto, e non illudiamoci che non ci siano colpi di coda al di là delle reazioni apparentemente pacate e accomodanti. Il colpo è stato incassato solo in superficie.
Certo, qui siamo nel cuore della vecchia Europa e forse il nostro voto potrà fare da volano ad altre nazioni per prospettare un cambiamento su vasta scala, ma non sopravvalutiamo i nostri anticorpi sociali: il Paese è e resta allo stremo, e l’uscita dal tunnel non è ancora venuta, per quanto se ne prospetti una concreta possibilità, quindi la vigilanza deve essere tenuta inderogabilmente alta.
A mio avviso la prima contromossa sarà quella di far considerare i referendum un boomerang: si è sempre saputo che questi ultimi sono solo una tappa della gestione dal basso dei beni comuni, proprio per questo dobbiamo evitare che non si tramutino in un’anatra zoppa, un percorso incompiuto che possa ritorcersi contro i nostri buoni propositi e ideali. Aspettiamoci inoltre uno stillicidio di servizi e reportage sul “pubblico brutto, sporco e cattivo” da parte dei media che fanno capo alla nostra controparte, specie spostando l’accento sugli altri servizi coinvolti nel referendum (fognature e rifiuti su tutti). Studiamo, affiniamo gli argomenti e prepariamoci sul quel versante a controbattere punto per punto. In proposito colgo l’occasione per rispondere a tale Galli, della Lega Nord che nella diretta di RAI3 condotta da Bianca Berlinguer dopo la vittoria ha detto pressappoco questo: “non vogliamo il nucleare, e va bene. Non vogliamo privatizzare i servizi pubblici locali, e va bene. Non vogliamo la TAV, e va bene. Ma non lamentiamoci che un giovane su tre è senza lavoro”. Ecco, è proprio perché la classe politica persegue ostinatamente questo obiettivo di crescita bulimica, ipertrofica e insostenibile che c’è spazio, parafrasando d. Milani, per l’egoismo di pochi e manca il necessario per molti. Si può e si deve cambiare passo. È dunque ora di perseguire anche il “progresso” oltre allo sviluppo, come direbbe Pasolini, che ci ricordava, in una sua famosa poesia, che non c’è acqua più fresca di quella della fonte del proprio paese.
Questi referendum devono spingere per la costruzione di un modello diverso di economia. Abbiamo scongiurato lo scippo, ma l’idea di gestione comunitaria è ancora tutta da costruire. E proprio su questo servirà un ulteriore scatto civico. Su che basi, dunque? Proprio sulle relazioni che sono risultate l’arma vincente della battaglia. Posso testimoniare che ho avuto modo di conoscere in questi mesi di attività delle persone straordinarie, veri e propri eroi del quotidiano che danno una speranza di cambiamento al Paese, dettando una nuova agenda per la politica. E questa è la loro meritatissima festa.
Debbo dire che il timore più attuale , avendo saputo degli screzi relativi alla festa di chiusura della campagna referendaria, è una possibile divisione nel fronte civico che ha sostenuto la battaglia, di idee prima e di azioni poi. Sarebbe l’inizio della fine e un imperdonabile tradimento di quei milioni di cittadini che hanno dato un segnale inequivocabile di cambiamento e riscossa. La disgregazione è un lusso che non possiamo permetterci, certo, io sono il primo a non sprizzare simpatia per il PD, tanto per dire, ma l’apporto degli “apparati” è stato, bongré malgré, insostituibile. La politica è necessariamente compromesso e mediazione. L’autosufficienza piacerebbe a tutti, ma è una pia illusione. Deve essere costruita un’alternativa praticabile a partire dai nodi di convergenza sui quali si è manifestato un consenso vasto e trasversale, e sui quali sembra essersi sviluppata una coscienza sociale condivisa. Questi referendum devono essere uno spartiacque, scusate il bisticcio, che porti a rimettere in discussione il modo con cui viene concepito il rapporto con quei “servizi aventi rilevanza economica” e che sono diventati nel tempo veicolo di rendite e malaffare. Questo può essere un primo nodo su cui lavorare, saldandosi con quella ventata progressista che ha investito molti enti locali non solo nell’ultima tornata amministrativa.
Chiudo queste poche battute con il ricordo dell’antecedente storico che più mi è tornato in mente in questi giorni: la legge sul “Chinino di Stato”, un passo in avanti di civiltà che ha permesso, a cavallo tra Ottocento e Novecento di salvare migliaia di vite umane, e vite degli ultimi, dei poveri, in zone disagiate dell’Italia afflitte dalla piaga della malaria grazie ad una coraggiosa battaglia compiuta, anche quella volta, contro la pervicacia dell’egoismo e della sete di profitto.
Alberto Leoncini per Criticamente
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