Contro l’Alca missione impossibile?
di Anna Morelli e Paulo Lima
Un patto commerciale muove le folle. Lo avreste mai detto? Eppure è successo, a settembre, in Brasile. 10 milioni di persone hanno partecipato a un referendum autoconvocato sull’Alca, l’accordo per la creazione di un’area di libero scambio dall’Alaska alla Terra del Fuoco. Bocciato dal 98% dei votanti. Perché il rischio -come già con il Nafta- è che su 34 Paesi coinvolti solo 2 o 3 ci guadagnino.
Quando leggerete queste righe il Brasile avrà probabilmente già eletto il suo nuovo presidente. Ma, all’inizio di settembre, il Paese ha vissuto un’altra esperienza elettorale, questa volta del tutto sui generis: un grande referendum popolare autoconvocato sull’esempio di quello che si era già svolto due anni fa sulla cancellazione del debito estero, in occasione del Giubileo. I seggi elettorali sono stati aperti nelle scuole, nelle parrocchie, nelle sedi dei sindacati e dei partiti di sinistra. Una mobilitazione popolare alla quale hanno partecipato, esprimendo il loro voto in una vera e propria urna, 10 milioni di persone [10.149.542 per la precisione, pari al 5,9% della popolazione].
Il doppio di quelli che avevano votato sul debito estero.
La mobilitazione a livello nazionale è stata veramente ampia. 150 mila i volontari che hanno gestito l’iniziativa, più di 40 mila le urne e quasi 4 mila le città coinvolte.
Oggetto di così tanta passione un trattato commerciale, anzi un’ipotesi di trattato commerciale che, a partire dal 2005, potrebbe coinvolgere tutto il continente americano, dall’Alalska fino alla Terra del Fuoco. Il nome, Alca, è già famoso perché è stato gridato in migliaia di slogan in tutto il Sud America: l’acronimo significa ‘Area di libero scambio delle Americhe’ ed è un incubo che potrebbe ben presto materializzarsi.
L’Alca prevede la creazione di un’area di libero scambio basata sulla graduale eliminazione delle barriere al commercio dei beni, dei servizi e dei capitali su tutto l’emisfero americano. L’incubo è che le economie forti nordamericane
inglobino quelle destrutturate del centro e del Sud America: non un’operazione quindi per espandere la libera concorrenza ma, più semplicemente, un’operazione che si risolverebbe nel consolidamento del proprio dominio e nell’allargamento del proprio mercato senza, per questo, rimettere in discussione le posizioni predominanti o monopolistiche né prevedere meccanismi più soft di integrazione economica. [E non è che questo non si possa fare: è il processo che, da decenni, va avanti per l’allargamento dell’Unione Europea, ma è anche l’idea che sta alla base del Mercosur, l’accordo che da alcuni anni lega Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay].
Brasiliani e latinoamericani sono preoccupati sopratutto perché l’Alca assomiglia troppo al Nafta, il trattato di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico che, nonostante le promesse, ha portato ben pochi benefici alla popolazione del Paese più povero, vaso di coccio tra due vasi di ferro: il prezzo pagato è stato la rovina dell’agricoltura [base economica di almeno metà della popolazione] e la riduzione dell’apparato produttivo al rango di industria di assemblaggio di merci che provengono dal’estero e che sono destinate all’estero [non tutta l’industria, per carità : messicano è anche uno dei colossi internazionali delle telecomunicazioni, ma questo non consola una popolazione che è alla fame e alla disperata, continua ricerca di un passaggio verso nord, verso il sogno americano che, visto da qui, è molto concreto: significa per esempio che, se si riesce a passare la frontiera, il salario minimo garantito per lo stesso lavoro si moltiplica per dieci].
Secondo la tabella di marcia i negoziati dovranno concludersi a gennaio 2005, per dare tempo ai Parlamenti dei rispettivi Paesi di ratificare l’accordo entro il 31 dicembre dello stesso anno. Ma gli Stati Uniti premono per accelerare il processo: in ballo c’è la costruzione di un enorme mercato da 520 milioni di persone, che potrebbe rivelarsi strategico in contrapposizio
ne con le altre grandi aree di ‘mercato unico’ che si sono venute consolidando in questi anni, a cominciare dall’area dell’euro.
Ma come si è arrivati all’Alca?
I negoziati tra i 34 Paesi dell’Organisacià ³n de Estados Americanos [Oea] sul Free Trade Area of the Americas [Ftaa per gli anglosassoni, Alca per i latinoamericani], sono cominciati a Miami nel dicembre del 1994. Si tenga conto che nell’Oea sono rappresentati tutti i Paesi latino-americani [tranne Cuba], più Canada e Usa.
Dieci gruppi stanno negoziando su altrettanti punti chiave: accesso al mercato; investimenti; servizi; agricoltura; diritti sulla proprietà intellettuale; sovvenzioni, misure anti-dumping, diritti compensatori; politiche di concorrenza.
Ad altri tre comitati speciali è stato affidato il compito di occuparsi di economie minori, commercio elettronico e della società civile.
Da dicembre a febbraio 2001 le trattative si sono tenute a Miami e dal marzo 2001 si stanno svolgendo a Panama City. Da marzo 2003 fino alla conclusione, prevista a gennaio 2005, la sede negoziale sarà Città del Messico.
Le trattative sono state guidate a rotazione dai ministri dei Paesi Oea. Ma, a partire dal prossimo mese di novembre 2002 e per tutta la fase finale, quella decisiva, la presidenza sarà affidata a Messico e Usa [guarda caso i Paesi che più spingono per l’approvazione].
Che possibilità ha l’Alca di diventare operativa? Alte, se si guarda alla determinazione degli Usa; ma anche l’opposizione al progetto diventa sempre più forte: non c’è solo il referendum autoconvocato del Brasile [il 98% dei partecipanti han detto che il governo non deve firmare l’accordo e il 95%, che il Paese non deve più sedersi al tavolo dei negoziati].
Inoltre il referendum brasiliano potrebbe presto essere replicato in altri 10 Paesi, Stati Uniti compresi.
Grandi perplessità vengono anche dal mondo imprenditoriale: ‘Il problema dell’Alca è che metterà in condizioni uguali le più grandi imprese del mondo, che sono le americane, e quelle brasiliane, ad esempio. Sarà un massacro’.
Alla fine di luglio la Confindustria dello Stato di San Paolo ha reso noto il più estensivo rapporto fin qui realizzato sugli impatti economici dell’Alca in Brasile. Il risultato della simulazione, che ha preso in considerazione l’annulamento immediato di tutte le tariffe di importazioni tra i Paesi, calcola che il Brasile perderebbe 1 miliardo di dollari all’anno.
Ma mentre la gente non si fida e vorrebbe cancellare tout court il progetto Alca, e semmai riprendere il negoziato su basi nuove e più eque, imprenditori e politici non rinunciano al tavole negoziale [e questo spiega perché, nonostante l’opposizione popolare, le trattative vanno avanti].
‘L’Alca è un progetto importante per il Paese e dobbiamo partecipare ai negoziati, però, difendendo i nostri interessi. L’accordo non è obbligatorio, ci interessa soltanto nella misura in cui otteniamo dei vantaggi’, spiega tra gli altri Luiz Fernando Furlan, presidente del Consiglio di amministrazione della Sadia, una delle maggiori aziende esportatrici del Brasile.
Intanto il 17 settembre una delegazione ha consegnato in Parlamento un documento con i risultati del referendum popolare e la richiesta di un referendum ufficiale. à ˆ previsto anche una campagna di raccolta firme a livello nazionale per far pressione sui parlamentari. Enorme il lavoro che è in corso per informare e coinvolgere la gente. In Brasile migliaia di persone hanno partecipato ai corsi di formazione e hanno discusso il tema in piccoli gruppi, comunità e in piazza. Sono stati stampati 1 milione di giornali, 300 mila libretti, 15 mila libri, 27 mila cartelloni, 1.500 video e 200 Cd con programmi educativi per le radio alternative.
‘In un tempo di campagna eletorale -fa notare il sociologo Emir Sader- basata sul marketing e sulla tv, quando la tendenza è a votare più i candidati piuttosto che i programmi o i partiti, il fatto che oltre 10 milioni di persone abbiano partecipato al referendum ha un profondo significato civico e politico. Dimostra che quando le persone sono convocate a votare su un tema di loro interesse, su cui ricevono informazione e si sentono coinvolte nel processo decisionale, l’interesse per la politica può essere molto più estenso di ciò che si pensa’.
Ora la lotta continua a livello continentale: l’appuntamento è dal 27 ottobre all’1 novembre a Quito in Ecuador in concomitanza con la riunione dei ministri dell’Oea [http://movimentos.org/noalca/]. A fine novembre a Cuba [l’unico Paese americano non coinvolto nell’Alca] ci sarà invece il secondo incontro continentale per dire no all’Alca.
Dal Paraguay alle Mauritius, tutti i nomi del libero scambio
Nel quadro della globalizzazione dell’economia si sta concedendo sempre maggiore enfasi alla costituzione e al consolidamento degli accordi regionali di integrazione economica: l’obiettivo è di creare mercati allargati in cui soprattutto le merci e i capitali circolino liberamente.
Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito al moltiplicarsi di queste ‘iniziative regionali’, tese a favorire la costituzione o la rivitalizzazione di aree economiche integrate, unioni commerciali, unioni doganali e accordi di libero scambio, che spesso si integrano vicendevolmente o si intersecano.
La natura e gli equilibri di queste aree di libero commercio sono però molto diversi tra di loro: si va dal modello di integrazione economico-monetaria, sociale e anche politica dell’Unione Europea agli accordi soltanto doganali o che, comunque, riguardano solo l’abbattimento delle barriere che ostacolano la libera circolazione delle merci. Non è in contraddizione il fiorire di questi accordi con il tentativo di realizzare un unico grande sistema di regole [o di non regole] rappresentato dall’Organizzazione mondiale del commercio [Wto]? In realtà no perché la stessa Wto prevede la possibilità di accordi regionali, in attesa di un unico grande mercato-mondo.
Vediamo quali sono i principali accordi regionali esistenti e le loro caratteristiche principali.
MERCOSUR
Con la firma del Trattato di Asuncià ³n nel 1991, Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay hanno istituito il Mercosur, un accordo che prevede la progressiva realizzazione di un mercato comune. Attualmente il Mercosur si configura come una unione doganale ancora incompleta: la circolazione dei beni intra-area è libera da dazi per tutti i prodotti, tranne nei settori dello zucchero e degli automezzi e la tariffa esterna comune si applica all’85% dei beni.
Il Trattato ha natura intergovernativa, anche se non sono state sinora create istituzioni comunitarie con potere sovranazionale ma solo organi di coordinamento [al contrario del Nafta, in prospettiva l’obiettivo non è solo di implementare gli scambi commeciali ma anche di arrivare a un’unione economica; per questo sono previste anche forme di compensazione a favore dei Paesi più deboli]. Il Mercosur ha personalità giuridica di diritto internazionale e può quindi negoziare come blocco a livello internazionale. Nel 1996 Cile e Bolivia sono diventati Paesi associati [e in effetti si tratta di un accordo destinato ad allargarsi ad altri partner], con la firma di un accordo che prevede la realizzazione di un’area di libero scambio in 10 anni.
Il Mercosur è una realtà economica di dimensioni molto importanti: si estende su un’area di 12 milioni di chilometri quadrati, e ha un mercato potenziale di 200 milioni di consumatori. In questi anni il Mercosur è diventato il principale blocco integrato dell’America Latina, ma oggi soffre per la crisi economica nella quale è precipitata l’Argentina. Il suo futuro dipende ormai non tanto da fattori interni, quanto dallo sviluppo dell’Alca, l’Accordo di libero commercio delle Americhe. L’Unione Europea è il principale partner commerciale del Mercosur, sia come mercato di sbocco che come fornitore. Il primo accordo quadro è stato sottoscritto nel dicembre 1995 e si poneva l’obiettivo di creare i presupposti per una intesa strutturata tra i due blocchi che spaziasse dal commercio alla politica alla cooperazione. L’ultima iniziativa riguarda l’adozione di un pacchetto di misure di sostegno alla cooperazione per 200 milioni di Euro, finanziato dall’Unione Europea per il periodo 2002-2006.
UNIONE EUROPEA
L’integrazione nasce inizialmente fra Paesi a livelli di reddito pro capite simile; solo con l’adesione di Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia, si può parlare di integrazione fra aree economiche differenti. Il modello prevede forti trasferimenti dalle aree ricche a quelle più deboli. Gli aspetti istituzionali del processo di integrazione in Europa sono seguiti con grande interesse da molti Paesi in via di sviluppo, che li vedono come un possibile esempio da imitare. E’ il caso per esempio del Mercosur che vede l’Ue come un modello di integrazione regionale a cui riferirsi.
L’Ue dimostra un incessante impegno nelle tematiche di integrazione regionale, puntando attualmente ad allargarsi verso Est e verso i Paesi dell’Europa centrale. Ciò è ulteriormente evidenziato dagli accordi di collaborazione e cooperazione siglati con i Paesi dell’area mediterranea, in vista della creazione con questi di un’area di libero scambio per il 2010.
ASEAN
Spostando l’attenzione sull’Est asiatico, si osserva un discreto interesse verso il regionalismo manifestatosi nella creazione dell’Asean [Association of South-East Asian Nations], ora Afta [Asean Free Trade Agreement] nel Sud-Est asiatico e dell’Apec [Asia Pacific Economic Cooperation], che comprende un notevole numero di Stati [tra i quali l’intero blocco Asean] dell’area del Pacifico. Lo stato di questi accordi non è definitivo; è infatti in atto un processo di estensione tramite la creazione di un’area di libero scambio per il 2020 e, data l’entità economica dei Paesi che ne fanno parte [ad esempio Stati Uniti e Giappone], questo suscita notevole interesse verso quello che potrebbe diventare l’accordo regionale della prima metà del XXI secolo.
SADC
La comunità economica per l’Africa australe, Sadc [Southern African Development Community], riunisce 14 Paesi dell’Africa sub-sahariana [Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Repubblica Democratica del Congo, Seychelles, Sud Africa, Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbabwe] che presentano un andamento economico fortemente differenziato.
La parte del leone spetta al Sudafrica, che da solo produce oltre il 70% del prodotto interno lordo dell’intera area.
Secondo la tabella di marcia, che prevede l’applicazione di politiche commerciali interne ed estere uniformi, entro il 2004 dovrebbe essere raggiunta la libera circolazione del capitale, umano e finanziario, ed entro il 2008 di tutte le merci, mettendo a disposizione del Sudafrica un’area di libero scambio con oltre 200 milioni di persone.
Altra unione esistente nell’area australe è il Sacu [Southern African Community Union], che rappresenta un accordo di importanza minore, essenzialmente tariffario, tra Sudafrica, Botswana, Lesotho, Zimbabwe e Namibia. I 14 Paesi dell’Area Sadc, con i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, rappresentano la quasi totalità del Gruppo Acp [Africa, Caraibi, Pacifico], legato all’Unione Europea da un accordo che risale al 1975.
Economia mondiale: globale o regionale?
Nonostante dal 1995 la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio [Wto] abbia avocato a sé la responsabilità della gestione del commercio mondiale, i programmi più ambiziosi di liberalizzazione del commercio si sviluppano ancora a livello regionale e non multilaterale.
Gli economisti si dividono sul fatto se le iniziative regionali accelerino o frenino il processo di liberalizzazione del commercio su scala mondiale.
Alcuni sostengono che gli accordi regionali facilitino la liberalizzazione del commercio creando una sorta di ponte tra le economie ancora relativamente chiuse e il libero mercato.
Altri invece vedono nei blocchi regionali un impedimento alla creazione di un mercato libero: se le nazioni beneficiano di accordi preferenziali reciproci, non sono propense ad esporre le loro economie ai rischi di nuovi equilibri.
Il dibattito ruota attorno alla domanda se la Wto debba concedere nuove deroghe al principio della ‘Nazione più favorita’ secondo la quale i contraenti devono accordare a tutte le altre parti lo stesso trattamento in materia di diritti e imposizioni all’importazione ed esportazione.
Ma il prezzo del Nafta è tutto sulle spalle del Messico
L’Alca ha un precedente e un modello: l’Accordo di libero scambio nordamericano, il famigerato Nafta che, dal 1994, lega Stati Uniti, Canada e Messico.
Ratificato nel dicembre 1993 ed entrato in vigore all’inizio del 1994, il Nafta comprende due dei Paesi più industrializzati del mondo, Stati Uniti e Canada, ed un Paese in via di sviluppo, il Messico. Al centro dell’Accordo, la graduale eliminazione delle tariffe di importazione e le riduzioni sui controlli doganali tra i Paesi contraenti: entro il 2010 dovranno essere abbattute completamente le restrizioni commerciali applicate agli scambi e agli investimenti [per la precisione l’Accordo norma la riduzione delle tariffe doganali, la diminuzione delle barriere non tariffarie, le denominazioni di origine, la soluzione delle controversie, le condizioni di competitività , l’investimento estero diretto, i finanziamenti e infine i diritti di proprietà intellettuale].
Nonostante questo il Nafta è un accordo di integrazione parziale perché riguarda solo impegni di liberalizzazione commerciale, ma non coinvolge altre sfere delle politiche governative.
L’esperienza del Messico dimostra che l’apertura commerciale verso un Paese con un livello di sviluppo molto più alto provoca quasi inevitabilmente la deindustrializzazione, la liquidazione di settori interi dell’agricoltura tradizionale e un aumento delle disuguaglianze sociali.
L’opposizione popolare all’Alca non si spiega se non si considera il prezzo che il Messico ha pagato per il suo coinvolgimento nel Nafta.
Enormi le differenze tra i Paesi del Nafta: il prodotto interno lordo degli Stati Uniti supera l’80% del totale dell’area creata; sempre gli Stati Uniti assorbono il 75 e l’82% delle esportazioni rispettivamente di Canada e Messico, il che significa che le loro economie sono strettamente dipendenti da quella statunitense. Se gli Usa, come è probabile in periodi di recessione, smettono di importare le merci messicane, il Paese centramericano va in bancarotta, non avendo nessuna possibilità di diversificare nel breve periodo il proprio export. [La situazione è peggiorata con il Nafta: dieci anni fa le esportazioni del Messico verso gli Usa erano attorno 66%].
Il Nafta, è vero, ha attratto flussi di investimento verso il Messico ma questo è stato determinato soprattutto dai livelli minimi di protezione sociale: nell’area Nafta si è creata una sorta di competizione ‘al ribasso’, con il trasferimento di impieghi e di produzione da zone avanzate [Stati Uniti-Canada] a zone meno protette e caratterizzate da costi minori [Messico]. In sostanza il Messico ha tenuto bassi i livelli salariali e di protezione sociale, al fine di produrre merci per l’esportazione a costi ridotti [il 50% di quello che il Paese esporta è prodotto nelle aree infernali delle maquiladoras].
I diritti dei lavoratori messicani sono rimasti sulla carta. Sebbene infatti il Naal, il protocollo parallelo al Nafta in materia di lavoro, elenchi in maniera inequivocabile i principi a tutela dei lavoratori, è mancata la volontà di istituire un rapporto politico tra gli accordi di liberalizzazione e la dimensione sociale del lavoro. Il che dimostrase ce ne fosse bisogno, che dove c’è un Paese [o due] dominante e l’altro dominato le regole le fa il più forte, al di là degli accordi scritti.
Anche l’agricoltura ha subito colpi pesantissimi.
Quella che doveva essere un’area di libero scambio si è rivelata ben presto un’impari lotta con un’agricoltura, quella Usa, che gode di alti sussidi e conta su tecnlogogie avanzate; da Paese esportatore di prodotti agricoli il Messico oggi importa dagli Usa circa il 50% di tutto quello che consuma. Circa 6 milioni di coltivatori hanno perso le loro terre e molti oggi vivono nelle favelas della capitale. Altri lavorano nelle maquiladoras della frontiera.
La prospettiva della creazione di una zona di libero scambio delle Americhe preoccupa anche gli ambientalisti. In particolare, è diffuso il timore che l’apertura delle frontiere faciliti il trasferimento di attività produttive inquinanti verso quei Paesi, le cui leggi a tutela dell’ambiente sono meno restrittive oppure dove le leggi ci sono ma mancano le condizioni e le risorse per farle rispettare.
Le preoccupazioni derivano dall’esperienza delle maquiladoras: lungo il confine con gli Stati Uniti, si sono addensati un numero abnorme di impianti industriali statunitensi, con effetti devastanti sul piano ambientale per tutta l’area.
Un inferno chiamato maquiladora
Uno degli effetti del Nafta sul Messico doveva essere, ed in effetti è stato, quello di attrarre capitali produttivi: peccato però che quasi tutti gli investimenti abbiano riguardato aziende maquiladoras, attività offshore autorizzate ad importare senza restrizioni materie prime o semilavorati intermedi [in sostanza impianti di assemblaggio di pezzi prodotti altrove]. Nei 2000 stabilimenti a capitale estero, concentrati lungo il confine, lavorano quasi tre milioni di persone. Sono aree franche in cui le condizioni di lavoro sono infernali. Negli ultimi tempi la tendenza è a creare maquiladoras anche nel Sud del Paese, lungo alcuni grandi assi stradali: la manodopera qui costa di meno ed è ancora più ‘flessibile’ [tanto da assorbire comunque i maggiori costi di trasporto], come nel caso del nuovo immenso complesso della Nissan costruito a Aguascalientes.
Per gli Stati Uniti il Nafta ha significato tra l’altro spostare più a Sud la frontiera dell’immigrazione: ora è il Messico a militarizzare la sua frontiera per limitare, per quanto possibile, l”invasione’ dai Paesi poveri del Sud. Per approfondire: www.maquiladorasolidarity.org
Il futuro che ci aspetta: esiste un modello vincente?
Mentre le trattative tra i 34 Paesi del’Organisacià ³n de Estados Americanos coinvolte nel negoziato sull’ Alca continuano, l’Unione Europea non perde tempo.
Le aree delimitate dal Patto Andino [Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela] e dal Mercosur rappresentano infatti per Usa e Ue la possibilità di allargare i rispettivi mercati. Considerando il solo Mercosur, la posta in gioco è di 200 milioni di consumatori pari a un Pil di circa 600 miliardi di dollari.
I progetti sono due: l’Alca, che punta a creare un’area di libero scambio dall’Alaska alla Terra del fuoco e il progetto ‘Mercomeditarreneo’.
Bruxelles ha interesse a un processo di liberalizzazione interregionale che affianchi la creazione dell’Alca. Nel corso del vertice di Madrid dello scorso maggio i capi di Stato e di governo dell’Ue e del Mercosur hanno ribadito il loro impegno a rafforzare le attuali relazioni biregionali con lo scopo di istituire un’associazione strategica interregionale che tratti le questioni politiche, economiche, commerciali e di cooperazione.
L’Ue ha anche posto le basi per un legame più stretto con il Messico tramite l’Accordo di associazione economica, concertazione politica e cooperazione, che include anche un Trattato di libero scambio [liberalizzazione progressiva del 95% del commercio bilaterale entro 10 anni] siglato a marzo 2000.
Se l’Ue accelera per garantirsi nuove allenaze e partner strategici, la creazione dell’Alca invece avanza a rilento, nonostante gli sforzi degli Usa di accelerare il processo. Il grandioso progetto è ancora in fase di definizione e le fasi negoziali procedono lentamente a causa della molteplicità e complessità di accordi commerciali regionali, sotto-regionali o di cooperazione bilaterale che si accavallano nel continente Sud Americano.
Anche fattori sociali e politici rallentano l’avanzata del mercato unico: in Colombia dilaga la guerra civile, in Venezuela i rapporti con gli Stati Uniti sono molto tesi, in Ecuador e Argentina la crisi economica resta gravissima.
L’Alca non è un processo irreversibile ed inarrestabile. Coloro che hanno partecipato al referendum popolare sostengono che deve ancora esserci il tempo e lo spazio per trovare delle alternative a un modello di integrazione che ha già dimostrato di avere pesanti effetti collaterali sulle economie più deboli.
Gli economisti intravedono almeno altre due possibilità : la formazione di un’area di libero scambio sudamericana, che coinvolga il Mercosur e i Paesi del Patto Andino che si orientano verso l’Unione Europea, oppure uno sviluppo del Mercosur come unione doganale, con aspirazioni a un mercato comune, caratterizzato da accordi di libero scambio sia con l’Alca sia con l’Unione Europea.
Un modello di integrazione può funzionare solo se comprende un programma di trasformazione economica fondato sulla giustizia sociale.
Ma le asimmetrie e disuguaglianze che caratterizzano il continente americano sollevano serie preoccupazioni sugli eventuali effetti di un’integrazione economica profonda: nel 2000 le tre Americhe contavano 750 milioni di abitanti con un Pil totale di 11 mila miliardi di dollari. Ma con un peso relativo delle economie fortemente disuguale: gli stati Uniti, il Brasile, il Canada, e il Messico producono rispettivamente il 75,7%, il 6,7%, il 5,3% e il 3,9% di questo Pil, gli altri 31 Paesi l’8,4%. Così il Pil delle Americhe è 2.000 volte maggiore di quello di economie come il Nicaragua e Haiti.
I dossier sul Web
Il materiale sull’Alca è su Internet. Su http://www.ftaa-alca.org/alca_e.asp il sito ufficiale dell’Alca trovate i documenti delle negoziazioni, la bozza dell’accordo, le dichiarazioni ministeriali, l’agenda degli incontri.
Un sito di controinformazione http://www.asc-hsa.org/ è gestito dall’Alianza Social Continental dove potete recuperare testi, rapporti e iniziative contro l’Alca. Se cercate un’analisi critica ma più accademica delle negoziazioni in corso andate su http://www.asc-hsa.org/pdf/americas_plan.pdf
Per approfondire la tematica dei blocchi commerciali regionali visitate i siti degli organismi internazionali: http://www1.worldbank.org/wbiep/trade/RI_map.html
http://www.wto.org/english/tratop_e/region_e/region_e.htm
Per una panoramica dei rapporti Ue &endash;Mercosur:
http://europa.eu.int/comm/external_relations/mercosur/bacground_doc/work_paper0.htm
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