Ci sono diversi modi di guardare al mondo che abbiamo davanti, non e’ detto che l’unico a cui siamo abituati sia quello adatto. La Redazione del Cambiamento dedica una giornata al lavoro, al significato che questa dimensione oggi assume a livello sociale, culturale, psicologico, spirituale, soggettivo. Un momento di pensiero e confronto.
di Claudia Bruno – 6 Maggio 2011 * http://www.ilcambiamento.it
In occasione della giornata di sciopero proclamata a livello nazionale dalla Cgil, e dedicata a denunciare le politiche del Governo in tema di occupazione, welfare, fisco e istruzione, con la Redazione del Cambiamento abbiamo deciso di dedicare questo 6 maggio al lavoro ”’ ai lavori, al lavorare ”’ al significato che oggi questa dimensione assume a livello sociale, culturale, psicologico, spirituale, soggettivo.
Vogliamo aprire il dibattito in modo nuovo, proporre visioni e idee alternative a quelle che ancora mettono in cima alla lista delle priorita’ la crescita come unica strategia per uscire dalla crisi, il concetto di ‘stabilita” come unica alternativa alla precarieta’ economica ed esistenziale, la pretesa dell’assistenzialismo come unico modello di welfare.
Vogliamo parlare di diritti, di diritto al lavoro ma anche e soprattutto di diritto alla vita e all’esistenza, e poi chiederci cos’e’ il reddito oggi, di cosa abbiamo bisogno realmente, qual e’ il modello sociale che vogliamo, quali sono i nostri desideri rispetto alla qualita’ della vita.
Vogliamo quindi parlare di come e’ cambiato in peggio il mercato del lavoro, dell’ingiustizia sociale su cui e’ attualmente basato, dare voci alle reti di giovani che si stanno muovendo per riprendersi il tempo, una vita; ma anche di come possiamo contribuire a cambiare le cose ridefinendo il modello di sviluppo di cui facciamo parte, quindi parlare di ‘green economy’, ‘scollocamento’ e ‘downshifting’.
Oggi piu’ che mai risulta difficile tracciare netto il confine tra lavoro e vita, cura e produzione, relazione e vendita, esistenza e profitto, ufficio e casa. Nell’arco degli ultimi vent’anni quello che chiamavamo il ‘mondo del lavoro’ si e’ trasformato lentamente in cio’ che oggi senza troppi sforzi riconosciamo come il ‘mercato del lavoro’. Un mercato altamente ‘femminilizzato’, che gradualmente si e’ appropriato di competenze tradizionalmente attribuite al lavoro di cura femminile – la flessibilita’, il tessere relazioni sempre e comunque, il prendersi cura di un progetto ad ogni costo, l’attitudine all’ascolto e alla conciliazione – e le ha messe a profitto. Un mercato che per prassi (s)vende talenti, desideri, passioni, entusiasmi al miglior offerente in cambio di minimi compensi e una scarsa qualita’ della vita.
La flessibilita’? Un equivoco dei nostri tempi. Un concetto frainteso che troppo spesso si e’ andato a sovrapporre a quello di ‘disponibilita’ permanente’, condizione tutt’altro che flessibile.
Molti giovani continuano a studiare e lavorare, ma non lo fanno ”’ o non possono farlo ”’ attraverso i circuiti ‘istituzionali’. Questo significa che non esistono?
In questo ‘eterno presente’ sembra sempre che il precariato sia la novita’ dell’anno. In realta’, nel 2011 si parla gia’ della seconda generazione di ‘precari’. Intanto, l’Inps comunica ai giovani cittadini iscritti alla gestione separata (Inps2) che si vergogna di far calcolare loro la pensione perche’ non ne avranno alcuna, o se l’avranno si trattera’ di cifre talmente irrisorie che il rischio sarebbe la sommossa sociale. E allora, meglio non comunicarle a tutte quelle lavoratrici e a tutti quei lavoratori autonomi o retribuiti tramite contratti co.co.co., co.co.pro., ritenute d’acconto, dottorati con borsa, ecc., che ancora vengono definiti ‘atipici’ nonostante rappresentino ormai la norma.
La precarieta’ diventa condizione esistenziale ancor prima che economica, e assume inevitabilmente la forma di un problema di giustizia nel momento in cui diviene condizione fondante dell’organizzazione sociale. Una societa’ basata sul ‘si salvi chi puo”, che erige a modello un soggetto forte e su di esso si misura (quello senza prole da mantenere, con buona famiglia alle spalle, in piena salute fisica e mentale), non puo’ essere una societa’ giusta.
Ma il dibattito sul lavoro troppo spesso e’ avviluppato su se stesso, chiuso su vecchie categorie ed aspettative che non fanno che aumentare il lamento collettivo, la frustrazione generazionale, la convinzione che ascoltare i propri desideri o pretendere dei diritti sia una battaglia persa in partenza.
La “ricchezza del Paese”, quale ricchezza? Il Prodotto Interno Lordo? Il “Lavoro”, quale lavoro? Non sarebbe piu’ onesto parlare di “lavori”, ridefinire cos’e’ “ricchezza”?
A volte spaventa come vengono trattate alcune questioni e le griglie di senso che vengono adoperate dalle istituzioni e dai media per spiegarle. Per esempio quando si scrive che una percentuale alta di donne, soprattutto al Sud, non ha un lavoro e non lo cerca. Questo dato e’ riportato come allarmante, ricondotto a una discriminazione, all’arretratezza di un paese sessista. Ma non sarebbe piu’ utile capire se si tratta solo di un problema di accesso, e quindi strutturale, di sistema, o di un dato di fatto sociale, all’interno di un contesto in cui ‘occupazione’ non e’ affatto sinonimo di liberta’, ne’ tanto meno (spesso) di autonomia economica, visto che attualmente la sussistenza e’ in mano a un welfare ‘familistico’? C’e’ una miriade di donne che si muovono, che operano, che cambiano, che lavorano continuamente e in ogni luogo, tutti i giorni. Chiediamoci quali donne non cercano quale lavoro e perche’.
Stessa sensazione, ogni volta che l’Istat lancia l’allarme sui cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training, persone che ‘non lavorano, non studiano, non cercano lavoro’). L’esercito dei nullafacenti, o i nuovi invisibili? C’e’ un’infinita’ di giovani donne e giovani uomini che continuano a studiare e lavorare, ma non lo fanno ”’ o non possono farlo ”’ attraverso i circuiti ‘istituzionali’. Questo significa che non esistono?
Diritto alla maternita’, alla malattia, al riposo, alla vecchiaia, non possono stare da un’altra parte rispetto al diritto ad un’aria pulita, ad un’acqua buona, agli spazi aperti, ad una terra non ricoperta di cemento, alle relazioni
E allora, chiediamocelo: che cos’e’ il diritto a lavoro oggi? Come si concilia con il diritto all’esistenza, alla vita, alla propria realizzazione nel mondo, al tempo per se’? Che fine fa la cultura della ‘piena occupazione’? Se la liberta’ coincide con il poter decidere come spendere il ‘tempo libero’, e di questo tempo non ne viene lasciato, come possiamo essere liberi di pensare, agire, cambiare?
Ci sono diversi modi di guardare al mondo che abbiamo davanti, non e’ detto che l’unico a cui siamo abituati sia quello adatto. Ancora troppo spesso si pensano i diritti dei lavoratori separati da quelli dei cittadini intesi come esseri viventi, come persone nate per respirare e camminare prima ancora di pensare e parlare, soggetti fatti soprattutto di carne e di ossa prima ancora che di ‘attitudine al problem solving’ e ‘determinazione al raggiungimento degli obiettivi’.
Se solo avessimo l’onesta’ di guardare al mondo cosi come ci si manifesta in questo momento storico, ci renderemmo conto che e’ tutto molto piu’ interconnesso di come ce lo rappresentiamo di solito. Diritto alla maternita’, alla malattia, al riposo, alla vecchiaia, non possono stare da un’altra parte rispetto al diritto ad un’aria pulita, ad un’acqua buona, agli spazi aperti, ad una terra non ricoperta di cemento, alla pienezza delle relazioni. Ognuno di questi piccoli e fondamentali tasselli contribuisce inevitabilmente a comporre quello che si potrebbe chiamare il ‘diritto alla vita’, il diritto ad esistere.
Riprendiamoci le nostre vite, ripartiamo da queste. Non c’e’ ricchezza piu’ preziosa.
(Tratto da: http://www.stampalibera.com)
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